La Zona d’Interesse ancor prima di essere un lavoro sulla banalità del male, o meglio sulla possibilità di deporlo visualmente poiché istituzionalizzato a tal punto da risultare invisibile, è un film sul cinema. Un film sulla capacità delle immagini di poterne contenere altre al di là dei propri confini semantici, scomodando lo spettatore a scrutare oltre il contemplativo. Un modo per riflettere sulle attuali possibilità del figurativo di rappresentare e dare spazio a specifici contenuti, come ad esempio la sofferenza e l’orrore di un popolo. I prodotti di finzione, le varie documentazioni, i vari reperti visivi; tutto ciò che nei secoli ha coltivato e alimentato la memoria del genocidio ebraico, ne La Zona d’Interesse detta le coordinate di un non-spazio/altrove pensato per interrogare eticamente les equenze suadenti che raccontano la vita della famiglia Höss. Una scelta tanto politica quanto estetica pensata non solo per mettere in discussione il concetto odierno di civiltà, qua rappresentato dagli usi e i costumi dei protagonisti, ma anche per gettare uno sguardo paranoico nei confronti su quel di affabulante c’è nel presente. Le carrellate in cui la camera di Jonathan Glazer corre lungo il muro di recinzione, tagliando a metà il set dell’idilliaca villa dei protagonisti per affiancare la realtà artificiosa della Zona con quella de l’Altro Mondo, servono proprio a smascherare l’inganno, a far emergere il male dal fuoricampo alla stregua di una reminiscenza. A questo modo le immagini di vita quotidiana in cui lo spettatore è chiamato a riflettersi, sprofondano verticalmente attraverso le pieghe del tempo per allacciarsi ad un orrore da cui quest’ultime sembrano avere origine. Apatia e Consumismo; l’oziosa vita borghese degli Höss sembra avere infatti un unico mantra: consumare per vivere. Il genocidio ebraico, i cui i corpi delle vittime vengono fagocitati da un Nulla/off screen che li omette dalla Storia, sembrerebbe così avere, in quel che si potrebbe definire come un parossismo, una radice in comune con l’atteggiamento di classe dei protagonisti. Un’idea che troverebbe coerenza nella volontà da parte dell’autore di delineare lo spazio abitativo dei personaggi alla stregua di un catalogo pubblicitario (scene in piscina).

La sofferenza in un film come La Zona d’Interesse, ristagna in un luogo accessibile solo alla memoria e all’immaginazione. Immaginare per ricordare, o almeno così direbbe George Didi-Huberman . Ciò che si muove in off screen nel film di Jonathan Glazer è un qualcosa che persiste oltre lo schermo, che trascende il figurato e diventa sensazione. Immagini così radicate nel collettivo da poter diventare altro; suoni, simboli o colori. I tre momenti monocromatici, totalmente svuotati da qualsivoglia contenuto o forma, ma ugualmente capaci di rappresentare qualsivoglia declinazione di dolore e terrore, sono esempio di quanto appena detto. L’ultima opera di Jonathan Glazer è un lavoro che sfida lo sguardo dello spettatore, invitandolo a scrutare/ascoltare all’interno delle fessure del quotidiano. E se è vero che le SS tentarono di sottrarre alla storia ogni sorta di testimonianza visiva del genocidio da loro compiuto, creando un vuoto di contenuti, allora la volontà di mettere in scena una sequela di luci che si spengono o di porte che si chiudono alle spalle del generale Höss va di pari passo con l’idea di porre off screen il campo di Auschwitz, rendendolo inimmaginabile/impossibile. Un modus operandi da burocrate che rende il capofamiglia alla stregua di un funzionario del male, un esercente privo di una reale coscienza politica. Esemplare è la sequenza finale della festa dove l’uomo, incapace di sentirsi a proprio agio tra i membri del partito, si estranea, relegandosi su una balconata in solitaria. Un soggetto per cui l’orrore è solo un dovere, un dovere utile a preservare i propri privilegi e la sua realtà domestica.

La Zona davanti a tutto: una vetrina estetica in cui il benessere borghese ha modo di articolarsi attraverso un’insieme di oggetti di arredamento; una dimensione che ha del diabolico nel godere della propria forma alienando la sostanza. I corridoi della casa, le stanze, il viale in fiori, il giardinetto con la piscina; Jonathan Glazer ricerca in tutto questo una centralità prospettica che, ponendo in perfetto equilibrio il micro-cosmo della villa, finisce con il sottolineare l’imperturbabilità della viziosa vita borghese dei protagonisti. L’equilibrio nella follia, l’ordine nel disordine morale. Anche i movimenti di camera ridotti all’osso, uniti all’abbondanza di totali, contribuiscono ad ossidare ulteriormente l’esistenza degli Höss. In tutto ciò l’autore fornisce sempre “punti di vista differenti” alla situazioni e ai personaggi, ma senza renderli mai troppo diversi tra loro, rendendo perciò lo scarto minimo e alla stregua di un errore. La Zona d’interesse è in tutto ciò un anti-horror costruito sulle geometrie, sugli spazi e che fa della sua totale messa fuoco/in chiaro (luce del sole) la sua mascherata più riuscita. Una bellezza capace di occultare anche la più grande delle sofferenze. Nell’ultimo film di Jonathan Glazer l’immagine torna ad agghindarsi di artifici per rendere l’orrore/ dolore più seducente nelle forme, mettendosi in linea con una delle politiche più influenti dell’A24 per quanto riguarda il genere. Nello stesso Under the Skin, la creatura aliena, oltre ad usare un costume affascinante (Scarlett Johansson) per adescare le proprie vittime, usa una piscina dal design accattivante per fagocitare gli esseri viventi che finivano dentro. Una tendenza tanto artistica quanto concettuale che in quest’ultimo lavoro del regista assume connotazioni ancora più radicali e paranoiche: diffidare dalle immagini.

La villa non è altro che un posto dove le atrocità diventano un dovere metodico, un compito da assolvere alla stregua dei più pigri dei lavori. L’alienazione in ciò è completa e la morte dell’uomo definitiva, lasciando posto unicamente a delle vetrine in cui tutto si museifica. Vetrine di design, vetrine di morte. La Zona non è altro che l’ennesima piscina alla Glazer maniera in cui l’umano è chiamato a sprofondare, in questo caso moralmente, fino allo zero assoluto. Il comandante Höss lontano da casa, prima di scendere nell’abisso, ha modo di confrontarsi con il presente/futuro. Nella sequenza finale infatti, prima dei titoli di coda, il contemporaneo irrompe nel film, confinando il personaggio all’interno di una camera mortuaria: i forni di Auschwitz. Polvere alla polvere. Un salto temporale che ci porta all’interno di un museo della memoria dove l’orrore, per quanto congelato ed ossidato, non smette di avere una propria eco mediante il rumore dell’aspirapolvere. La Zona d’Interesse, per concludere, è un film che coniuga il meglio del cinema d’essai con il meglio del cinema mainstream, offrendo uno sguardo etico inedito capace di mettere “l’oggi” in prospettiva con ciò che quest’ultimo tiene ai margini delle proprie comodità. E se nella villa arty degli Höss, in pieno stile A24, l’altro, mediante l’utilizzo delle camere termiche, diventa un alieno protagonista di una non-storia inconciliabile con il resto, allora l’abisso siamo noi. La storia di una ragazza ebrea di conseguenza non può che diventare estranea a tutto il resto, disorganica nelle logiche di rappresentazione. La narrazione, per coerenza di contenuto, assume così dei toni “spettrali”, a contraltare di un mondo solare e colorato come quello della Zona. Un negativo vivente, un’essere relegato ad un’oscurità di concetto, oltre che all’oblio. Proprio per questo lo spettatore, il cui sguardo è costantemente chiamato in causa, è messo alla stregua dei carnefici, per questo il film parla dell’oggi e non di ciò che è successo nel passato: la visione dello spettatore è tanto alienata quanto quella della famiglia Höss. E se il cinema Arty è finalmente in grado di poter raccontare in modo così totalizzante e sintetico un dramma di tale importanza storica, allora si può dire che La Zona d’Interesse ne è la definitiva consacrazione.

Byung-Chulan, autore de ‘La società senza dolore‘ troverebbe nel film di Jonathan Glazer una sintesi formale di quanto da lui espresso nel suo testo filosofico. E se è vero che le sofferenze sono le cifre di un codice che descrivono una società, allora La Zona d’Interesse, con il suo intento di escludere il dolore dal piano visivo, è il ritratto di un’epoca che ha rimosso il dolore dal piano politico e storico, compromettendo la propria coscienza e moralità.

Nell’epoca post-fattuale, con le fake news o i deep fakenasce un’apatia nei confronti della realtà, anzi un’anestesia della realtà…

…senza dolore non abbiamo né amato e né vissuto…

…senza la cultura del dolore nasce la barbarie…


Così, alla luce delle parole di Byung-Chul Han, si delinea un quadro in cui l’orrore, divenendo più affabile e accomodante verso lo spettatore, omettendo il suo valore umano e politico, cessa di trasformarsi in consapevolezza e memoria. Ecco che l’off-screen, come già detto poco più sopra, diventa la conseguenza dell’idiosincrasia moderna nei confronti del reale, nel suo problema nel comprenderlo e di conseguenza nel raccontarlo. E in un mondo in cui anche i film horror sono sempre più seducenti nelle forme (elevated horror), risulta impossibile non sottolineare la crisi sistemica di quest’epoca nei confronti della morte e del dolore. Quelle pensate da Jonathan Glazer sono infatti immagini senza coscienza. La descrizione perfetta di un pubblico anestetizzato nei confronti dei fenomeni che lo circondano e lo attraversano. La Zona d’Interesse diventa così non solo la prova di come il cinema art-house sia stato assorbito al punto tale da poter rappresentare in modo totalizzante una delle più grandi tragedie umane, ma anche di come questo stesso approccio racconti uno dei più significativi cortocircuiti della contemporaneità. Se il dolore non è dolore, se l’immagine non è in grado di catturarlo di raccontarlo nella sua accezione più pura, com’é possibile raccontare qualcosa di autentico? Com’è possibile smuovere le coscienze se queste rimangono affascinate da delle forme in grado di tradire se stesse? La sofferenza, come presa di coscienza politica, può ancora manifestarsi in un’epoca anestetizzata da vetrine digitale e comodità dai design più fantasiosi?

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