Nato originariamente come film per la televisione e poi, grazie al successo ottenuto, approdato al cinema con un’estensione di ben oltre 15 minuti, Duel rappresenta la genesi del cinema di Steven Spielberg. Un road movie atipico persino per l’epoca poiché, nonostante il genere non fosse ancora così ricco di opere e consolidato nei propri canoni narrativi ed estetici, ha saputo distaccarsi in parte da quel che l’aveva preceduto e da ciò che poi gli seguirà. Il regista infatti, anziché mettere in scena la consueta fuga dal conformismo, manifesto ideologico della controcultura statunitense di quegli anni e narrazione per film come Easy Rider o il più datato The Wild Angel, ha preferito raccontare, sotto forma di metafora, il disagio sociale dell’uomo medio americano di quegli anni, evidenziando più gli effetti che le conseguenze del fenomeno. Il protagonista perciò non è né un ribelle e né un criminale, ma anzi appare, sia fisicamente che mentalmente, come un individuo perfettamente omologato ai crismi del suo tempo e rassegnato ai cambiamenti di quest’ultimo. David (Dennis Weaver) infatti non scappa dai suoi problemi, ma anzi gli ci va incontro, in una mancata presa di coscienza della sua condizione e della sua inadeguatezza caratteriale. Una figura ben lontana, se non praticamente opposta, a quelle care alla tipologia e che fa di Duel un riflesso deformante della società di quei giorni, invece che un’opposizione politica e culturale a quest’ultima. E se è vero che il cinema Western è stato il primo a coniugare il concetto di road movie (Stagecoach, John Ford es.), allora si può dire che Steven Spielberg abbia fatto di quelle spoglie primogenite un modo per delineare una dimensione narrativa in cui lo scontro d’astuzia, in questo caso definito più dal metallo che dalla carne, è il principio di tutto. Un duello dove il concetto di velocità, elemento sempre più fondate per la società dell’epoca, gioca un ruolo fondamentale per la sopravvivenza del maschio americano.

Facciamo un piccolo passo indietro. Ci troviamo agli inizi degli anni ’70, immediatamente dopo la seconda ondata dei movimenti femministi negli Stati Uniti. Un periodo storico contraddistinto da forti cambiamenti, sia dal punto di vista economico che culturale. Un’epoca segnata dai movimenti giovanili e dal governo di Richard Nixon, un’epoca in cui l’americano medio teme di perdere la propria posizione privilegiata. La rivoluzione in quei giorni è sistematica, a tratti radicale, capace di attraversare ogni media possibile. Ed è in questo contesto storico che Steven Spielberg rielabora marginalmente il quadro politico per dare vita ad un racconto in cui il protagonista è chiamato a fronteggiare un male incarnato, un concetto alla base della sua stessa esistenza: il senso di inadeguatezza. Un viaggio fatto di soggettive, primi piani e dettagli, in cui la capacità di decodificare lo spazio attraverso lo sguardo diventa sinonimo di salvezza. Un’idea in grado di richiamare a sé il cinema Western ancor più delle ambientazioni desertiche in cui l’intero film è ambientato. Emblematica di ciò è anche la sequenza del punto di ristoro in cui, oltre ad emergere l’ambiguità di fondo, si chiarifica maggiormente la dimensione dello sguardo: ogni cosa deve essere decifrata, tutto è un gioco beffardo di botta e risposta. Un momento che l’autore utilizza, mediante un ampio uso di soggettive, per alludere, ancora una volta, che ciò che stiamo osservando è conseguenza diretta della psiche del protagonista. David Mann in tutto ciò è chiamato ad un confronto con una nemesi indistinta, simbolica, che non solo lo obbliga a ridefinire sé stesso, ma anche a scontrarsi con i suoi timori più irrazionali. Un uomo ordinario qualunque, a cui il suo stesso cognome allude (Mann/Man) messo d’innanzi ad una normalità divenuta paradossale ed ignota, atavica nel suo modo di predisporre l’inquietudine. In quei frangenti la macchina, simbolo per eccellenza dell’industrializzazione e dell’omologazione americana, diventa l’unico strumento di confronto per i due rivali, oltre che un’estensione, a tratti anche carnale, per entrambi. La fusione uomo-macchina in tutto ciò è completa, l’alienazione totale. Una battaglia combattuta attraverso la velocità, la potenza del motore e l’abilità alla guida. Aspetti che Steven Spielberg accentua attraverso un montaggio serrato, svariati zoom, primissimi piani utili pensati per costruire una dimensione narrativa di pura tensione.

Guardando Duel si ha infatti la sensazione di avere a che fare sia con il cinema di Alfred Hitchcock, di cui il regista è stato sempre un estimatore, che con quello di John Ford, o probabilmente con una più ampia rilettura postmoderna del genere Western. L’autore, nel suo modo di rimodulare lo spazio in prospettiva allo sguardo del protagonista ed il terrore per l’ignoto da lui provato, fa emerge una dichiarazione d’intenti ben precisa: l’uomo è chiamato ad un confronto con la natura metafisica dei suoi timori e debolezze. Ora proviamo a capire meglio: Steven Spielberg, mediante l’utilizzo di dettagli che portano alcuni elementi a giganteggiare all’interno della scena, altera le dimensioni dello spazio abitativo del protagonista per farlo soccombere d’innanzi ai suoi stessi sentimenti, ad un perturbante che trascende il piano reale delle cose. E se tutto questo trova una coerenza con l’ironia beffarda che muove l’intreccio, ecco che è possibile scorgere l’eredità del cinema di Alfred Hitchcock. «Ho fatto Psycho e Gli Uccelli su quattro ruote» o almeno è questo che il regista dichiarò a suo tempo. E se Gli Uccelli può essere ancora considerato come la rappresentazione di un attacco sistematico all’ordine precostituito americano/umano da parte di un ordinario che, dopo aver trasceso se stesso, predispone una sfida tanto metafisica quanto animale, allora si può dire che Duel intercetti questa struttura per rielaborarla mediante una forma più dinamica e sensazionalistica, più moderna nel linguaggio. E se l’eredità è quella di Alfred Hitchcock, il film invece è manifesto dei temi e delle ossessioni del cinema di Steven Spielberg.

Il regista mette in scena un film crepuscolare, ai margini di tutto, al di fuori di un’unità di tempo specifica. Un viaggio lineare che attraversa un paesaggio spoglio e paranoico, quasi astratto, a commento di uno scontro che è sempre esistito e che per sempre esisterà. Un duello insito nella natura dell’uomo, volto di un male programmato per mettere in discussione l’ordine morale. Ogni elemento di Duel appare deteriorato, corroso dal tempo; marcio sia dal punto di vista estetico che da quello morale. Un film che racconta di un ruolo sociale morente, messo alle strette da una realtà a lui ostile. Una figura che il regista confina in uno spazio abitativo limitato, riducendo sempre di più il suo campo d’azione. Un’idea che trova spazio fin da inizio film quando David Mann, durante una conversazione con la moglie, finisce confinato all’interno di un oblò di una lavatrice. Una sequenza emblematica non solo dei temi che muovono Duel, ma anche dell’ironia evidenziata poco più sopra.

Un’ultima precisazione invece va fatta sull’autocisterna, vero simbolo dell’opera, e che secondo stessa ammissione di Steven Spielberg possiede un “volto cattivo”. Una dichiarazione che evidenzia di come l’idea di ibridare uomo e macchina è una scelta più che mai presente all’interno del film. Un mezzo meccanico senza origine, privo di uno scopo razionale. Un male che attende, una nemesi destinata ad una morte più che mai carnale. La goccia di carburante, simile a sangue, che cola lentamente dopo lo schianto del mezzo è indice di quanto appena detto. L’autocisterna in tutto ciò non è diversa dallo squalo di Jaws, proprio come quest’opera d’esordio non è troppo differente a quella che lo ha consacrato nell’immaginario collettivo appena quattro anni dopo. L’operazione del regista, per quanto limitata dai suoi stessi confini televisivi, riesce ugualmente, sia nei modi di raffigurare il perturbante che in quelli per mantenere alta la tensione, ad essere molto di più di un esercizio di stile, nonché di un mero siparietto da piccolo schermo. Duel è infatti un’idea di cinema, è il desiderio di riformare uno spettacolo senza mai rinnegarne le origini.

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Classificazione: 4 su 5.

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