L’immagine condanna, l’immagine redime. La Jetée di Chris Marker, oltre ad essere una riflessione sulle possibilità del racconto cinematografico, è anche un’operazione che pone al centro dei suoi ragionamenti, testuali e metatestuali, la valenza di un’immagine all’interno dell’economia che la ingloba. Un film che mediante tutto quel che sottrae ed omette, non solo sottolinea l’elasticità della materia filmica, ma ribadisce anche come quest’ultima, nell’accezione più romantica del termine, possa sopravvivere alla propria disgregazione. Una distruzione presente non solo nel racconto dell’opera, ma anche nella sua stessa struttura; in tutto quel che manca, in quello spazio di non-racconto che separa i vari fotogrammi. Qualcosa che è andato perso, qualcosa che va ritrovato.
Nel film di Chris Marker esistono infatti due unità di tempo: quella del ricordo e quella della tragedia. Ogni elemento in La Jetée è però fermo al momento successivo del collasso dell’umanità, ogni corpo riflette un senso di immobilità ed impotenza nei confronti del tutto. Il regista ne documenta la sopraffazione. Parlare di tempo quindi potrebbe fuorviante e paradossale, poiché non c’è né movimento e né direzione all’interno dell’opera. L’azione non ha un prima o un dopo e tantomeno un verso; possiede solo una dimensione: quella del fotogramma. E se è vero che la fotografia è la storia di un’istante, allora il fotogramma è l’istante che si fa storia e che, se messo nell’ottica dell’opera di Chris Marker, assume connotazioni quasi spettrali. Tutto ciò che i personaggi de La Jetée ricordano o fanno risiede infatti al di là dell’osservabile, oltre quel che può essere scorto tramite il semplice sguardo. Non c’è l’azione per intero, ma solo un frammento. Tutto il resto è ricostruito dal sonoro, da un io narrante che mantiene insieme i pezzi e che percorre un viaggio tanto interiore quanto fantascientifico. Il regno della coscienza apre così le sue porte, l’immaginario del racconto collide con la riflessione interiore.
Un bambino, prima del collasso del mondo civilizzato, assiste ad una scena surreale che imprime nella sua memoria il volto di una donna. Un’immagine destinata a diventare per lui un punto fermo, un ricordo in grado di sopravvivere al tempo e alla memoria, di ricomporre un io ormai andato in frantumi assieme al mondo civilizzato. L’immagine in questo frangente diventa principio, andando oltre la semplice suggestione, e facendosi motore di un racconto, il perché di una storia. È una diegesi che ritrova nel suo stesso linguaggio un motivo per essere ed esistere. La Jetée, detto in parole più semplici, è il perché del cinema: la ragione del perché una storia nasce assieme alle sue necessità. In questo caso tutto ruota attorno al fotogramma di una donna, una donna che il protagonista dovrà ritrovare nelle pieghe del tempo.

Il regista affronta perciò un viaggio attraverso la falsificazione della memoria, e in questo caso anche dell’audiovisivo, per documentare la ricerca di un principio. Chris Marker sfoglia tra le mistificazioni del racconto e i ricordi per giungere al cuore della rappresentazione, a ciò che guida il senso e il sentire della visione di un uomo, o in questo caso di un’autore. È un camminare ai bordi dell’immagine con l’obiettivo di ritrovare se stessi, o meglio per comprendere meglio le meccaniche che animano il fare cinema. Fra varie linee temporali e cunicoli sotterranei, il regista lascia allo spettatore il compito di riempiere i vuoti, o meglio di plasmare la narrazione in base a ciò che manca, alimentando così la sensazione d’inganno percepito e di artificio. Un inganno, o meglio un senso di paradossale, che diviene totalizzante nel finale, in un momento vissuto due volte. Il protagonista, dopo aver ritrovato la donna del suo ricordo, viene raggiunto da uno dei suoi carcerieri che lo uccide d’innanzi gli occhi terrorizzati di un bimbo che il narratore rivela essere lui stesso da bambino. È un’immagine, o meglio l’immagine, che diventa doppia, molteplice nei suoi punti di vista, perturbata nel suo essere ricordo. È la storia di uomo che ritrova se stesso, ma che si perde definitivamente nel farlo. È semplicemente l’impossibilità di essere su schermo. É da qui che il film di Chris Marker inizia e finisce.

La Jetée, per concluderem è un’opera sperimentale in grado di incarnare sia i timori dell’epoca legati alla Guerra Fredda che la necessità di un nuovo tipo linguaggio che, con gli anni a venire, delineerà le politiche della Nouvelle Vague. Reinventare per poter immaginare, per poter dare una nuova dimensione alle immagini. La memoria e la paranoia trovano così nell’opera forme inedite in cui la non-linearità dell’intreccio, unita “all’idea del fotogramma”, fanno di questi temi un motivo d’indagine sulle potenzialità del medium. La falsità della memoria ed il fantastico in La Jetée vanno di pari passo, portando la dimensione della psiche a collidere con quella del mondo proto-cyberpunk in cui il racconto è ambientato. Un viaggio in direzione del passato per mezzo di un indecifrabile presente. Frutto di una commistione tra documentario e prodotto di finzione, quello di Chris Marker resta uno tra i film più influenti di sempre, tanto da aver ispirato direttamente anche L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam, nonché un modo di intendere il genere fantascientifico.
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