David Cronenberg, con Crimes of the Future, ritorna al body horror che lo ha reso celebre in tutto il mondo, non solo per ricollocarne temi e ossessioni, ma anche per proiettarlo verso una fase concettuale e stilistica differente. Il punto è chiaro: il corpo è mutato e il cinema è chiamato a formulare nuovi spazi e modelli di rappresentazione per poterlo analizzare. Alla luce di questa necessità viene preso in esame l’adattamento di un organismo alle logiche di un ambiente in continuo cambiamento. Tutto ciò rende il concetto di corpo duplice all’interno del film: da una parte quello dell’essere umano e dall’altra quello del cinema dell’autore. Due elementi chiamati a reinventarsi per poter sopravvivere al proprio tempo, nonché ad una decadenza strutturale che il regista evidenzia in ogni spazio e modello. Il film d’altronde si apre con la presentazione di un relitto, facilmente riconducibile a quello della Costa Concordia, che introduce lo spettatore in una dimensione di declino sia per il racconto che per l’immagine.
Un Ecce Homo inanimato che, in quanto sintesi del deterioramento degli spazi, è indice di una visione arrugginita con il passare degli anni. Nell’inquadratura però c’è anche un bambino a completare il quadro nella sua continuità concettuale e visiva. Un secondo corpo, romanticamente riconducibile a quello di un naufrago, che, a causa della sua anomalia genetica, fa da innesco alla marca tematica del body horror. Un organismo mutato nel suo metabolismo, evoluto per poter sopravvivere nel mondo, tanto da essere diventato un divoratore di elementi inorganici. Un soggetto che è andato ben oltre l’orrore della carne e della mutazione (vedisi la Mosca e l’eventuali analogie tra i due per la bava corrosiva), riuscendo ad affermarsi come essere definito nei suoi assetti biologici, per quanto frutto di un deterioramento che il regista non si dimentica di sottolineare attraverso la presenza di alcune mosche che gli ronzano attorno. Il rapporto simbiotico tra individuo e spazio d’appartenenza appare evidente. Due soggetti, la nave e l’essere umano, che compongono un quadro in cui sia la carne che il cinema dell’autore sono chiamati ad attraversare le medesime tematiche.

Lo spazio nel film, pur non primeggiando a causa di un uso limitato di totali, assume un ruolo significativo nel racconto per l’influenza che esercita sui vari personaggi. Un insieme di ambienti che il regista lascia spesso a fuoco alle spalle dei protagonisti per sottolineare l’aderenza di quest’ultimi agli scenari e al sentire da essi veicolati. Una dimensione tanto importante quanto influente per le riflessioni che affrontano i personaggi da essere caratterizzato da diverse piazze di incontro; luoghi adibiti allo scambio di informazioni o all’interazione umana, in cui il contenuto/consapevolezza di sé passa sempre attraverso all’ambiente. Quello di Crimes of the Future è un insieme di superfici che, oltre a mettere in mostra la necessità di un riordinamento e di un restauro, sia morale che artistico, fa dello spazio la massima manifestazione dell’io umano. Le scenografie, anche per il fatto di essere composte prevalentemente da stanze spoglie e ricoperte di umidità, non risultano diverse da quelle degli interni di una barca in rovina o, più poeticamente, di una prigione. Crimes of the Future, nel descrivere tutto ciò, è un film statico, immobile nella sua incertezza, o meglio arrenato nella speranza di un cambiamento che possa scuoterlo nell’esistenza. I movimenti della macchina da presa sono infatti ridotti all’osso, risultando a tratti minimali. Ad avanzare, o meglio ad arrancare, sono unicamente i personaggi. Quello proposto da David Cronenberg è un mondo morente ed opprimente abitato da fantasmi alla ricerca di un corpo, di un senso e di un futuro per cui combattere.
Spettri la cui voce risulta fioca e debole quanto la carne che li ospita. Una carne che richiede di essere lacerata per poter essere compresa, che esige di essere deturpata per potersi riempire nuovamente di fascino e significato. Un corpo indecifrabile, invisibile a se stesso, tanto da venire spesso occultato sotto gli oscuri panni di Seul. Se ne La Promessa dell’Assassino la nudità di Viggo Mortensen era uno dei punti da cui si articolava i il senso dell’opera, in Crimes of the Future è l’esatto contrario. É l’aspetto anti materico del personaggio a muovere dei significati all’interno del film, è il suo corpo etereo a portare avanti delle riflessioni in merito alla sua rappresentazione. Non è un caso infatti che la sua nudità venga mostrata principalmente durante le performance pubbliche dell’uomo e quasi mai altrove. Ed è attraverso questo assetto che David Cronenberg mette in scena l’aspetto trascendentale del corpo umano, il suo aspetto più etereo. Nel film la chirurgica infatti non è altro che un processo che rimodella il corpo più nel fine che nell’estetica, più nel concetto che nell’apparire. L’atto erotico sta nel poter dare un senso alla carne, oltre che uno scopo, riscoprendola sia nella forma che nel contenuto per tornarne padroni per un istante. È in questi frangenti che l’autore va oltre al testo per parlare del suo cinema, o meglio di quella necessità da parte del medium di rimodellare se stesso per indagare i nuovi organi del presente.

E se è vero che nella narrazione ideata dal regista nessun personaggio sembra avere la piena consapevolezza del proprio organismo, allora le performance di Seul rappresentano la più grande merce di scambio in tal contesto. Un nutrimento intellettuale per dei fantasmi senza scopo, per quegli uomini in lenta putrefazione che vedono nei tumori l’unico segnale di cambiamento possibile. L’assenza di emozioni o sensazioni, come ad esempio il dolore, rende i personaggi di Crimes of the Future ancor più simili a quelli di un classico racconto dell’orrore, non troppo diversi dai vampiri di Only Lovers left Alive o dagli zombie di romeriana memoria. Ed è in questo scenario drammatico che David Cronenberg accenna una possibile via di uscita alle problematiche da lui presentate.
Una possibile evoluzione dell’organismo umano dovuta ad un innesto da parte dell’ambiente circostante: la metabolizzazione dei rifiuti sintetici. La plastica, intesa come ipotetico nutrimento, smette così di essere oggetto inquinante, ribaltandosi nel significato e portando l’immagine iniziale verso una nuova dimensione: quella del finale. In questo processo emerge uno sguardo verso l’attualità ed un certo tipo di cronaca che merita di essere preso in considerazione. La carne è quella dell’oggi, è quella di un essere costretto a convivere con i rifiuti e le macerie della propria società. È un corpo malinconico ed inespressivo, volto al martirio ed impossibilitato a trovare significati al di fuori della rimodellazione/riclico di sé. Un’altra gabbia per l’io umano. Crimes of the Future da questo punto di vista è una matrioska di prigioni per il metafisico che dimora nei corpi, per quel che sopravvive ad ogni cambiamento e che muore ad ogni dissezione. E per quanto la carne sia al centro delle ossessioni, quest’ultimo film di David Cronenberg sembra incentrarsi anche sul fare arte/ cinema. Proprio come il corpo risulta sprovvisto di confini, e quindi capace di trascendere continuamente se stesso, producendo significati diversi ad ogni performance, così anche l’arte risulta irrisolvibile nei suo funzionamenti, indefinibile nei suoi fenomeni.

È il suo aspetto più ambiguo ad essere preso in esame, è il suo essere fusa concettualmente con l’organismo umano, tanto da averlo trasformato in un medium, a divenire contenuto all’interno del racconto. Quella di David Cronenberg è più un’analisi di effetti ed eventuali diramazione creative, che una messa in pratica di quest’ultime. È più un teorizzare, che un dibattere. Nell’ultima scena, la cui rappresentazione ricorda Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer, il protagonista (Viggo Mortensen), anche per l’iconografia religiosa a cui si rifà con le sue movenze, sembra cadere in estasi, recuperando la capacità di provare sensazioni ed emozioni. Un prima e un dopo richiamato anche dalla scelta del b/n che si pone come punto di rottura con tutto ciò che la precede. E mentre lo sguardo del personaggio si rivolge al di là di qualsivoglia campo d’azione, l’immagine registrata si pone come strumento di risoluzione d’innanzi al metafisico. E se ‘il filmato dentro il filmato’ finisce con l’immortalare con successo ciò che è trasceso carnalmente, allora la ricerca può dirsi compiuta, sopravvissuta ad ogni tipo di ambiguità. La morte o il compimento evolutivo sono un dettaglio trascurabile d’innanzi al più grande fenomeno del corpo: l’emozione. In questo caso la più grande fra tutte. La massima congiunzione tra gioia e dolore, testimonianza di un frammento divino nell’essere umano: l’estasi. La camera di David Cronenberg sfiora così l’anima e il divino, raggiunge il principio del suo cinema e mette momentaneamente fine al suo percorso.
Valutazione:




Lascia un commento