Texas Chainsaw Massacre di Tobe Hopper, oggi come a quel tempo, è da intendersi come l’espressione di un’America spaventata da se stessa, in conflitto con tutto ciò che risiede ai margini del proprio sistema. Un film che nel corso del tempo ha contribuito a cambiare la sensibilità del pubblico nei confronti delle immagini e a definire lo slasher nei propri canoni narrativi ed estetici: dall’utilizzo di una maschera contraddistintiva per l’assassino fino ad arrivare al ruolo della final girl. Non è quindi riduttivo affermare che “Texas Chainsaw Massacre” ha fatto da apripista ad una nuova dimensione dell’orrore, consolidando una formula che ha ispirato decine di registi e case di produzioni nel corso del tempo. Un vero e proprio punto d’arrivo per tutte quelle influenze che hanno attraversato il cinema durante gli anni ’60’s e che nel film di Tobe Hooper giungono a piena consapevolezza e maturità. L’aspetto cruciale dell’opera però non risiede tanto nella scrittura, ma bensì nel modo di concepire le immagini. Il taglio simil documentaristico, che sembra quasi intercettare le potenzialità e le possibilità del found footage / Mockumentary, rifonda l’esperienza di genere e lo fa a partire dal testo d’apertura.
Il film che state per vedere è un resoconto della tragedia che è capitata a cinque giovani, in particolare a Sally Hardesty e a suo fratello invalido Franklin. Il fatto che fossero giovani rende tutto molto più tragico. Le loro giovani vite furono spezzate da eventi così assurdi e macabri che forse neanche loro avrebbero mai pensato di vivere. Per loro un’idilliaca gita pomeridiana estiva si trasformò in tragedia. Gli avvenimenti di quella giornata portarono alla scoperta di uno dei crimini più efferati della storia americana.

Un monologo, ovviamente fasullo e pensato ad hoc per stimolare la sensibilità del pubblico, che sottolinea la retorica insita nelle immagini pensate da Tobe Hooper, rendendo il male una questione ancor più vivida e credibile. Ulteriore riprova di questo intento registico è il taglio da reportage dato alla sequenza iniziale in cui la telecamera diventa una macchina fotografica intenta a tracciare l’anatomia di un’America decadente come se fosse nelle mani di un poliziotto su una scena del crimine. Quella di Texas Chainsaw Massacre infatti non è solo la rielaborazione della storia di Ed Gein e dei suoi crimini, ma è anche (e soprattutto) il racconto di una nazione che fatica a riconoscersi nei valori e nei sogni dei propri padri fondatori. E non è un caso infatti che nel film di Tobe Hooper, così come per Psycho di Alfred Hitchcock e altri titoli legati allo slasher, compaiono case coloniali in stile gotico e patriarchi malvagi. Animali impagliati e “vessilli di guerra” sono solo la cornice di un modo di destrutturare un mito ed evidenziare l’instabilità identitaria di un paese.

C’è da precisare che l’epoca in cui Texas Chainsaw Massacre viene realizzato è un periodo scosso da vari turbamenti: dall’instabilità politica/economica generata dalla presidenza di Richard Nixon, alle tensioni con la Russia fino ad arrivare al Vietnam e alle conseguenti proteste giovanili. Uno scenario di tumulti che fa dei teenager e delle famiglie della middle class le vittime predilette per un macello generazionale, dei predestinati ad un orrore che per alcuni, i superstiti, sarà persino formativo. Ed è in questo panorama che il topòs della strada sbagliata, unito all’incapacità da parte dei protagonisti di saper leggere i segnali premonitori ( alias la natura del proprio ambiente ), diventerà un modo per indagare i meandri più torbidi della coscienza americana. E non è un caso quindi che molti film di questa tipologia, tra cui propri Texas Chainsaw Massacre, abbiano come ambientazione una landa desertica riconducibile al genere Western. L’assunto, in base a quanto detto, è presto fatto: il tracollo di alcuni valori statunitensi è la genesi di un processo di destrutturazione e ri-inquadramento dei canoni e degli orizzonti di tutto ciò che rimaneva di quel tipo di cinema, rendendolo un terreno di scontro ideologico contro varie reminiscenze collettive. Controcultura versus vecchia cultura. La famiglia di leatherface d’altronde appare fin dall’inizio fusa con i propri simboli di morte, volto identitario di un peccato originale mai assolto. Un male che Tobe Hooper usa come spettro e macchina di morte contro i giovani dell’epoca per rappresentare un’America impreparata al cambiamento e con la tendenza a fagocitare se stessa. Un modus operandi che tornerà in altri film del sottogenere sotto la forma di un rito iniziatico o come impossibilità di contrastare l’indole reazionaria di una nazione.
Fermiamoci un secondo e ripartiamo da capo.
Siamo nel 1932 e James Whale dirige The Old Dark House, portando sul grande schermo una delle primissime famiglie di squilibrati della storia del cinema. La storia è semplice: un gruppo di viaggiatori, alla ricerca di un riparo durante un violento acquazzone, finiscono nei pressi di una sinistra magione abitata da degli enigmatici figuri. Sarà l’inizio di un inquietante confronto fra l’America perbene e quella restia al progresso e al sistema. Un canovaccio che, per quanto embrionale e volto a toccare temi diversi in modo differente, possiede più di un punto in comune con quello di Texas Chainsaw Massacre e di Psycho. Ed è proprio l’opera di Alfred Hitchcock ad evolvere la formula attraverso una concezione di cinema differente: il film prima di tutto. Il film come strumento di indagine sulla natura dello spettacolo e sul modo di interrogare il presente e lo spettatore. L’approccio alla narrazione perciò cambia, la protagonista (Marion / Janet Leigh ) muore a metà della storia e il regista si impone come coordinatore supremo dell’esperienza. Il cinema come macchina autoriale, culla delle pulsioni / ossessioni di un’epoca, ottiene così una nuova consapevolezza. Lo sguardo sugli oggetti e sui temi si fa a questo modo più perverso e viscerale, quasi pornografico e voyeuristico. In questo passaggio anche Peeping Tom di Michael Powell si rivela fondamentale. L’occhio umano, concretizzando tutte le intuizioni e le influenze del passato, acquisisce forma completa, diventando una seconda telecamera: teatro di orrori e porta d’accesso ad un rimosso collettivo di stampo culturale. L’insieme di questi cambiamenti traccia una linea retta nella storia del cinema. Inizia ad esserci un prima e un dopo, un nuovo e un vecchio mondo di idee e rappresentazioni.



Texas Chainsaw Massacre esce più di un decennio dopo, al seguito di altrettanti cambiamenti, sia nella società che nello spettacolo, e funge da sintesi / completamento di tutto quel che l’ha preceduto. La telecamera nelle mani di Tobe Hooper è prettamente statica o prudente, restia a qualsivoglia virtuosismo, e perciò funzionale sia nella volontà di documentare l’orrore a mo’ di reportage che nel renderlo protagonista assoluto dell’operazione. La carne é al centro di tutto, motore di ogni pulsione e politica umana; vittima e carnefice di qualsivoglia epoca. La carne diventa così oggetto di mistero e di indagine, quintessenza di una psiche che necessita di essere riportata alla luce (sequenza iniziale fotografica). Una carne che si museifica assieme ai vetusti simboli reazionari di cui la famiglia di leatherface costella la propria casa. Le ambientazioni dismesse e impolverate, unite alle tonalità torbide della fotografia, non fanno altro che incrementare il tutto, delineando una dimensione primordiale mediante la messa in scena. In sintesi è la descrizione dell’America dimenticata da tutti, quella che si è ritrovata tagliata fuori dal mondo. È l’America decaduta, terreno di scontro mitologico tra vecchi e nuovi ideali e luogo ideale per ospitare mostri e spettri. Anche Duel di Steven Spielberg, ad esempio, anticipa a suo modo la lezione, pur essendo distante dai vari discorsi affrontati fino ad adesso.
Texas Chainsaw Massacre, per concludere, è la fotografia di un nuovo modo di fare cinema e di sentire il mondo. Un film in cui i vecchi miti decadono per far spazio ai nuovi. Un film in cui la prole dei vecchi e leggendari cowboy diventa l’emblema di un nazione distorta e malata, nemesi di ogni forma di progresso, nonché di se stessa.
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