Francis Ford Coppola in Megalopolis mette in discussione i fasti e gli assetti dell’America imperialista contemporanea, prendendo in prestito l’immaginario dell’antica Roma e minandone il costume mediante un’estetica dalle sfumature camp. Un processo volto a far degli Stati Uniti una sempiterna festa modaiola ignara del proprio tracollo umano. L‘aspetto cheap di alcune immagini, pensato per raccontare la decadenza strutturale e morale della società in questione, è ulteriormente accentuato dall’aspetto televisivo/pubblicitario di alcune sequenze che rendono i personaggi e le architetture posticci nella loro retorica. L’opera di Francis Ford Coppola su questo è chiara: un paese al collasso enuncia il proprio declino tramite i simulacri che lo identificano. Un’idea che in Megalopolis si manifesta attraverso statue che crollano e immagini da brochure, sintomo di una nazione stantia e incapace di avere una visione differente o solida di se stessa. E se è vero che un popolo che perde la fede smette anche di sognare e di preservare i propri miti, allora quest’ultimo lavoro del regista rappresenta il punto finale di questa concezione.

Gli imperi crollano quando la gente smette di crederci

L’opera di Francis Ford Coppola è in sostanza il capolinea di un’epoca messa in ombra dal proprio passato e bisognosa di nuove immagini e parole per formulare inediti e possibili futuri. La crisi in Megalopolis è tanto sistematica quanto umana, radicata nella stessa cultura che ne detta le coordinate ideologiche. Una distopia i cui aspetti opprimenti sono da rintracciarsi nel concetto di tempo. Un tempo indefinito che si auto ricicla, sotto il monito nefasto di un’imminente disfatta (quella di Roma). Un esempio di quest’assunto è il personaggio interpretato da Adam Driver, un uomo così tormentato dal fantasma di sua moglie da finir vittima di spettrali sovrimpressioni. In tutto ciò il prevalente utilizzo di inquadrature statiche da parte del regista non fa altro che consolidare tale concetto, accentuando il senso di staticità che fa sprofondare i personaggi e le strutture all’interno dell’opera. Uno scenario in cui anche la scrivania del sindaco, in quella che pare un’allucinazione ad occhi aperti, sembra venire inghiottita dalle sabbie del deserto. Un panorama in cui solo Cesar Catilina (Adam Driver) riesce a mettere discussione ogni assetto e convinzione. Un demiurgo, alias di Francis Ford Coppola, in grado di riplasmare la materia filmica e immaginare nuove forme e figure per essa. Un dono capace di “far fiorire i fiori”, simboli di una rinascita strutturale ed etica, laddove prima regnava un vuoto esistenziale. Un vuoto simboleggiato da un cratere, generatosi dall’impatto di un satellite al suolo, e pretesto per la costruzione dell’utopia floreale di Cesar Catilina.

Uno sviluppo narrativo che porta la seconda parte del film ad essere un affastellamento di fotogrammi e di progetti che forniscono alla realtà di Megalopolis, e alla nostra, la possibilità di immaginare e sognare un futuro roseo per tutti. Un’epilogo da fiaba che nasconde dentro di sé una più complessa necessità di riformulare storie e linguaggi per poter proiettare la collettività al di là del presente e del passato. Un processo in cui i media sono chiamati in causa, tant’è che in una delle sequenze finali del film, in quel che pare un rimando a Quarto Potere di Orson Welles, l’immagine di Cesar Catilina giganteggia su un maxi-schermo mentre espone un discorso politico al proprio popolo. La rifondazione della civiltà in Megalopolis parte quindi da una riscoperta capacità di sognare e approda alle possibilità del cinema di materializzarla tramite un’operazione visionaria. In questo il personaggio di Adam Driver opera come un vero deux ex machina, un creatore/regista in grado di rifondare l’immaginario del film partendo da un nuovo tipo di materia (megalon), o meglio da quel che si potrebbe filosoficamente chiamare principio morale ed estetico. Una soluzione/idea tanto respingente per la gente di New Rome/Megalopolis, quanto lo è il film di Francis Ford Coppola nell’esporla al grande pubblico. Le immagini e il montaggio operano in tal senso per suggerire come più un concetto appaia visionario/utopico e più questo risulti irrecevibile da parte della gente.

passato e presente si fondono in un tempo indefinito

E non sembra anomalo quindi, alla luce di quanto detto, che Cesar Catilina sia capace di fermare il tempo, di possederlo e di dargli una nuova direzione. Un’espediente che pare la metafora di un uomo-artista, un uomo padrone della sua epoca e capace di farsi guida spirituale della propria nazione. La rarefazione di alcuni avvenimenti inoltre, poco definibili nella loro cronologia, può essere intesa come l’ennesima riprova di un tempo confuso che necessità di un nuovo ordine morale. L’uso abbondante dello split-screen nella seconda parte del film, oltre a raccontare di un progetto/ideale così imponente da non poter essere contenuto in un’unica immagine, serve proprio per far collassare gli avvenimenti l’uno sull’altro in un tempo “zero“. E per quanto Megalopolis possa risultare un’operazione senile per alcuni valori/messaggi proposti, nonché per alcune tempistiche narrative, non è così. A rendere attuale e valido nei contenuti il film di Francis Ford Coppola è l’approccio all’immagine. Un’immagine che, nel suo essere principalmente costume morale di un’epoca, è glamour e modaiola, ascrivibile alla propria contemporaneità per alcune intuizioni da art-house che rifugiano da ogni logica narrativa, se non da quelle del cinema. Cinema perché anche di cinema si parla.

La natura antitetica di New Rome, in cui gli scorci del passato si amalgamano male con quelli del presente, sembra infatti essere una rilettura delle produzioni audiovisive contemporanee. Un descrizione della crisi immaginifica della nostra epoca, infestata da infiniti remake, reboot e requel che nel corso del tempo hanno offuscato qualsivoglia orizzonte innovativo. E in una realtà priva di futuro e di nuovi modi di raccontare/raffigurare l’umano, la time-lime non può che collassare su se stessa apportando dei salti logici/narrativi simili a dei glitch. Megalopolis, per concludere, e lo specchio distorto del modo in cui il pubblico contemporaneo consuma storie e immagini. Una risposta autoriale che scomoda chi lo osserva e che prova a mettere in discussione ciò che in questi anni si è consolidato nelle piccole e grandi produzioni audiovisive.

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