La forma è tutto. Il corpo è tutto. La bellezza è tutto. Paolo Sorrentino è uno di quei registi che crede nelle proprie immagini, tanto da liberarle da qualsivoglia rigore narrativo e creativo. Immagini in grado di poter esistere ed essere funzionali al di là della storia che le contiene, dialogando con lo spettatore in quanto simulacri di una giovinezza e di una bellezza sfuggenti, al limite del comprensibile. Parthenope, nelle sue fattezze umane, è un polo attrattivo attorno al quale personaggi e personaggetti si muovono e si espongono alla ricerca di un perché esistenziale. Parthenope, in quanto film, è il racconto di un’Italia e di un cinema in balia del proprio costume e del proprio sentire. Un’opera che rigetta ogni linearità e logicità per far spazio ad una storia fatta di attimi, di fotografie che immortalano le varie figure come sculture e icone di un teatro/sfilata che va oltre l’umano, collocandosi in un mondo fatto di idee e miti. Esemplare è la passeggiata per le vie di Napoli in cui la quotidianità viene collocata in delle vetrine concettuali, catalogo degli usi e dei costumi della cultura napoletana. Immagini pure non nel loro essere autentiche, ma bensì nel loro essere principio artistico/contenutistico per un regista che indaga la natura di quest’ultime. Una sequenza non dissimile a quella del giro in canoa e nella quale i vari scorci del Golfo vanno a comporre una visione da cartolina o da rivista modana.

D’altronde in Parthenope ogni elemento è in continua esibizione, incasellato in primo piani o in totali che tentano di incorniciare una bellezza che rifugge dallo spettatore, nascondendo la propria nudità, alias principio logico. Non è un caso infatti che la protagonista venga spesso inquadrata dietro veli o altri oggetti che rendono impossibile decifrare il suo corpo nella propria interezza. In ciò l’opera di Paolo Sorrentino non è pornografia, ma spettacolo. La sequenza dei due amanti in ciò è piuttosto esplicita, nonché l’unica ad essere in antitesi con quanto detto. In quel frangente vediamo due ragazzi, posizionati in scena come dei modelli di un set fotografico, venire costretti da una platea dalla dubbia moralità a copulare tra loro. Un atto violento che pone in evidenza parte della retorica del regista, soprattutto per il suo modo di raffigurare i presenti. Un attacco(?) a coloro che intendono la bellezza come un oggetto d’uso, piuttosto che un modo per interrogare se stessi e il mondo circostante. In sintesi Parthenope è un cinema che ri-esplora se stesso, sia nei suoi significati che nelle sue rappresentazioni.

É la rivincita della forma. Forma in questo essenza stessa. Alle luce di ciò il regista tratta la propria protagonista come una musa attorno alla quale rimodella la struttura del film, adeguandola alla natura catartica del personaggio. Sotto questo aspetto l’opera di Paolo Sorrentino, con le ovvie e dovute precisazioni, può ricordare La Belle Noiseuse di Jacques Rivette, nonostante le varie differenze sul piano semantico. Parthenope è in sintesi il modo in cui l’autore guarda alle cose. Uno sguardo che si fa carne, un’autorialità che si fa personaggio. Un’astazione fatta donna che, come quasi ogni altra figura del regista, è più un principio estetico/ideologico che individuo. La sequenza in cui la ragazza emerge dal mare, come Venere, e fea quelle isole feconde col suo primo sorriso, esemplifica questo concetto mediante una soggettiva in cui il point of view di Paolo Sorrentino coincide con quello della giovane. E se è vero che l’antropologia è la branca che analizza i fenomeni umani, ecco che l’atto del guardare, riprendendo quanto affermato nell’epilogo del film, diventa un modo per dare un peso e un senso a tutti quei modelli e a quelle suggestioni che dettano le coordinate di una visione artistica: quella di Paolo Sorrentino stesso.

E anche quando la bellezza di Parthenope si istituzionalizza, questa continua a dettar leggere, a plasmare le coordinate morali del tutto e a ribellarsi ai dettami/ordini dell’istituzione. D’altronde quella della protagonista è una bellezza capace di mettere a nudo i vari personaggi e sistemi, evidenziando i dubbi e le contraddizioni dell’essere umano. Una bellezza enigmatica che si fa ricerca/interrogativo, ma mai risposta. In base a ciò l’opera di Paolo Sorrentino assume i tratti di un’epopea personale in cui gli aspetti formali de La Grande Bellezza si fondano con quelli de È stata la mano di Dio, delineando un punto d’arrivo nella carriera dell’autore. Un punto d’arrivo in cui la dimensione dell’immagine si fa più affettiva, materica nel suo prendere forma attraverso scorci e ricordi di una Napoli ormai lontana nel tempo. Il montaggio del film a tal proposito sembra il collage di tutto quel che, con il passare del tempo, ha definito il senso del bello da parte del regista. Pathenope d’altronde non è che la sua amata Napoli fattasi carne.

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