L’Esorcista nasce in un periodo storico turbolento per gli Stati Uniti d’America. La Guerra del Vietnam è ancora in corso, l’inflazione minaccia sempre di più la supremazia della nazione e l’amministrazione di Richard Nixon non fa che peggiorare le cose. Sono anni di grande instabilità socio-economica ed è in questo contesto che l’opera di William Friedkin nasce, dando voce, forse anche con un po’ di inconsapevolezza, ai turbamenti dell’epoca. All’interno del film infatti non viene messo in discussione solo l’equilibrio della tipica famiglia borghese, ma anche di tutte le istituzioni ed i luoghi con cui quest’ultima si interfaccia. Ospedali psichiatrici, periferie cittadine, luoghi di culto: tutti gli spazi sembrano essere scossi da un certo tipo di disordine o precarietà. Niente appare saldo nei propri assetti, evidenziando una crisi tanto morale quanto sistematica. Dagli atti vandalici perpetrati nei confronti della chiesa locale ai luoghi spogli e suburbani in cui padre Karras si muove. Ogni elemento e luogo ne L’Esorcista è sintomo di una visione sociale ben precisa: il disordine è ovunque e la mancanza di una guida politica/spirituale sta mettendo a repentaglio l’ordine precostituito. La fede vacillante di padre Karras (Jason Miller) o della sua comunità parrocchiale non sono che un ulteriore tassello del mosaico appena descritto, proprio come la mancanza di unità da parte della famiglia MacNeil (assenza del padre). Quelli del film sono tutti personaggi che tradiscono se stessi, o meglio l’ontologia della loro figura, risultando lontani da più consolidati valori dell’epoca.

Ed è con queste premesse che il regista costruisce una minaccia invisibile, capace di deturpare e alterare il candore del focolare domestico americano, o meglio del suo immaginario collettivo. La sequenza del pianoforte, in cui gli amici e i parenti dei MacNeil si riuniscono a mo’ di presepe per cantare insieme, è piuttosto evocativa di quanto detto. Un’insieme di personaggi, tutti aderenti ai canoni estetici ed etici dell’epoca, sguardianati dall’arrivo della protagonista. Quello di Regan è infatti un corpo politico attraverso il quale William Friedkin evidenzia l’inefficacia delle istituzioni con cui si confronta: la Chiesa (fede), la medicina (scienza) e la polizia (stato). Il tracollo è perciò sistematico, radicale nell’interrogare i vari apparati della società americana dell’epoca; l’atto ai limiti del processuale. Ad emergere è un’autopsia che pone in evidenza un’inadeguatezza diffusa, accompagnata da una paranoia generalizzata che, con le dovute cautele, potrebbe sembrare la cronicizzazione di alcuni fenomeni che negli anni ’50 e ’60 hanno alimentato il filone della fantascienza. Il concetto di invasione esterna (paese straniero), che in film come L’invasione degli ultra-corpi di Don Siegel ha contribuito a delineare un’intero immaginario nonché a raccogliere alcune sensazioni diffuse nella popolazione, potrebbe trovare ne l’Esorcista una sorta di labile strascico, eco di un terrore mai del tutto esorcizzato. D’altronde il demone insito in Regan, per quanto in possesso di un nome e di altre coordinate identitarie, è il più atavico dei terrori. Un orrore tanto sistematico quanto politico. E per quanto il lavoro di Roman Polanski riesca a presentare con anticipo un orrore interiorizzato, è con l’opera di William Friedkin che questo aspetto sembra emergere in modo più evidente nel suo prendere in esame le diverse istituzioni del paese.

Il regista attraverso l’ausilio di molteplici simboli e figure, che si appellano all’inconscio o alla cultura occidentale, da vita ad un’atmosfera ostile a quest’ultimo. Una finestra sempre aperta, un vento incessante, due cani che si azzuffano: il male, nell’opera di William Friedkin, è rigorosamente codificato, diretto contro una società che su quei codici si fonda. L’atto vandalico nei confronti della statua della Vergine Maria ne è un ulteriore esempio, proprio come lo è l’utilizzo della croce. Si può dire quindi che L’Esorcista è un’opera costruita sull’ontologia degli spazi e dei segni, sulla messa in discussione del loro valore più consolidato. Ed è anche per questo motivo che le immagini pensate dall’autore sono riuscite a smuovere una collettività intera, scardinando nuove frontiere e modi di raccontare l’orrore. Immagini contro altre immagini. Un film contro quel che di consolidato c’era al livello cinematografico. Linda Blair d’altronde è una delle prime bambine a sottoporsi ad una rappresentazione così truculenta, proprio come L’Esorcista è uno dei primi progetti a fare un uso così deliberato di alcuni simboli (cristiani e non). L’opera di William Friedkin sembra quasi sottolineare la necessità da parte dell’industria cinematografica di andare oltre ad alcuni codici visivi e narrativi, incarnando il sentire che ha mosso le produzioni negli anni 70’s. D’altronde per creare nuove storie servono nuovi modi per rappresentare figure e concetti.
Un male insito nelle cose. Un male che esiste ancor prima della sua più chiara ed inequivocabile apparizione, prima di qualsiasi cosa. Il preambolo iniziale, che sembra appartenere ad una dimensione narrativa differente dalle altre, serve proprio a sottolineare questo concetto. L’approccio, come per altri momenti dell’opera, è quasi di tipo documentaristico. I volti degli abitanti, i mercati popolari, i mestieranti, i luoghi di culto: tutto è parte di un’immagine che si interroga sulla natura del male, che tenta di intercettarne/comprenderne i segnali. Un male destinato a scontrarsi con la sua controparte ideologica dal momento stesso in cui viene riportato alla luce. Non è un caso infatti che padre Merrin (Max von Sydow) cammini ad inizio film, tra svariati moniti nefasti (carrozza), in anguste vie/corridoi verso il suo fato: il demone stesso. William Friedkin, da bravo “topografo”, dimostra quindi di avere una consapevolezza del movimento all’interno degli spazi, non lasciando mai nulla al caso. Più avanti nel racconto, a supporto dell’asserzione appena formulata, è possibile evidenziare un’immagine emblematica di padre Merrin intento a salire un colle che sembra rifarsi simbolicamente alla via crucis. Un movimento ascensionale che il regista ripete anche all’interno dell’abitazione dei MacNeil per rafforzare il concetto di calvario a cui i due preti son sottoposti. Ed è anche grazie a questo modus operandi che il regista riesce a rendere la possessione demoniaca così efficace al livello figurale/simbolico. La casa, spazio/palcoscenico principe dell’intreccio, prima di essere deturpata nella sua integrità, viene descritta con molta attenzione da William Friedkin, mostrando allo spettatore tutte le sue stanze ed i suoi anfratti. Ne vengono documentate la vita quotidiana e le geometrie, attribuendo valori e valenze specifici ad ogni luogo. Un preparativo funzionale a rendere ancora più impattante, almeno al livello psicologico, quella metamorfosi, fatta di luci alogene ed atmosfere siderali, a cui è destinato quel micro-cosmo borghese.


Parlando di spazi risulta poi impossibile non menzionare altre sequenze rilevanti in tal senso, almeno per ciò che concerne l’abitazione dei MacNeil, come ad esempio quella del seminterrato (tavola Ouija) e della soffitta (topi). Due segmenti narrativi distinti, ma capaci di completarsi grazie al loro significato intrinseco. L‘autore attraverso di esse suggerisce infatti un senso di accerchiamento da parte del male, capace di minacciare i protagonisti sia dal basso che dall’alto, non lasciando margini d’errore. Ulteriori cose andrebbero dette anche per ciò che concerne il volto di Pazuzu, distaccato totalmente dalla dimensione filmica e relegato in un anti-spazio, e la camera di Regan, luogo sopra-elevato ed a tratti sacro, rivolto allo scontro più puro tra bene e male. E se la raffigurazione data al demone sottolinea la consistenza divina di quest’ultimo, in quanto ne isola la figura da qualsivoglia condizione umana, ciò che viene fatto alla stanza della protagonista invece viaggia in senso opposto, lavorando in maniera meno astratta e più materiale. Se nei primi momenti ci viene mostrato un ambiente caldo e solare, ricolmo di oggetti legati ad attimi affettivi, in quelli conclusivi la situazione viene radicalmente capovolta. La camera di Regan viene de-umanizzata e privata di qualsivoglia aspetto fanciullesco, accompagnando il corpo della ragazza in questo processo di deterioramento. La metamorfosi messa in atto trasforma un luogo ordinario e famigliare in uno spazio a cui hanno accesso esclusivamente le luci e le ombre.
Ed è in questi momenti che William Friedkin si trasforma in un autentico pornografo dell’orrore, orchestrando un assalto visivo alla figura e all’innocenza di Regan. Una violenza, fisica e psicologica, fatta di immagini che destrutturano la più classiche percezioni cinematografiche. L’esibizionismo del regista in questi attimi esplode, portando l’opera a farsi meno minimale e più visionaria, almeno per quanto concerne l’uso degli effetti speciali. Il tempo della narrazione rallenta, la telecamera smette di allontanarsi dal luogo dell’esorcismo ed incominciano a susseguirsi dettagli e primi piani volti a descrivere l’orrore e il dolore presenti nella stanza. La voglia di indagare/interrogare il male, mostrata in precedenza attraverso innumerevoli esperimenti ed esami, viene accantonata per far spazio ad una più pura e semplice ostentazione di forza. E se i vari check-up clinici, insieme alle registrazioni audio e le sedute di ipnosi, si sono rivelanti inefficaci a decifrare l’orrore, il cinema invece centra l’obiettivo. Le immagini vengono messe così al centro di una riflessione alla “vedere per poter credere”. Immagini in grado di soprassedere qualsivoglia dubbio ontologico e restituire al pubblico un male tangibile nella brutalità perpetrata nei confronti della carne, nella plasticità data agli spazi e agli effetti visivi. La camera da letto di Regan diventa così un atto visionario ed epico, volto a dare solennità e maestosità a quello scontro tra assoluti che da sempre destabilizza ed ispira l’uomo.

L’Esorcista, in conclusione, è un film che è riuscito a formulare una nuova visione dell’orrore partendo dalle proprie immagini, facendo di queste una rivoluzione tanto estetica quanto contenutistica. Un’opera che ha contribuito a cambiare la psicologica delle forme e delle figure legate al genere, rendendo lo spettacolo ancor più viscerale. E per quanto opere come Psycho, Peeping Tom, The Last house on Left e alcuni gialli/horror italiani avessero già contribuito a mutare fortemente il panorama/la sensibilità, è con il lavoro di William Friedkin che il tutto diventa più completo. Un lavoro che può essere considerato, assieme a Rosemary’s Baby, The Night of Living Dead e Texas Chainsaw Massacre, un punto d’arrivo e di ripartenza per il cinema di genere.
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