L’immaginario delineato da Phil Tippett in Mad God è espressione formale e ideologica di un pensiero nichilista che vede l’uomo annullato in ogni suo giudizio o valore. Un universo narrativo permeato dalla tecnica, in cui l’industria, al pari di un Dio, demolisce il senso di ogni cosa. Tecnica che richiama altra tecnica, il cui unico scopo è quello di consumare se stessa per alimentarsi, o meglio per autopotenziarsi. In tutto ciò, il movimento discensionale della camera, con cui il regista stratifica e gerarchizza il mondo del racconto, non lascia spazio a dubbi: il sistema capitalista è simile ad un inferno dantesco in cui ogni devianza umana è messa in evidenza per essere funzionale nella propria accezione di simulacro. Bocche e intestini, di indefinite e titaniche creature, si collegano a questo modo a macchine diaboliche pronte a triturare e consumare quanto di appena prodotto. Un organismo unico, fatto di ferro e carne, a rappresentazione dell’intima connessione che intercorre tra individuo e capitalismo. Una verticalità, quella pensata regista, che ancor prima di essere movimento è senso drammatico. Un mondo dove l’inizio e la fine di ogni ente coincidono, in cui la genesi e l’annichilimento sono solo degli istanti intervallati da incubi e dolori. Un perverso meccanismo, quello dell’industria, che non conosce etica e morale, ma solo utilizzo.

Distruggere per creare, in un ciclo infinito di auto-impoverimento. Concetti e automatismi che l’autore qualifica moralmente attraverso immagini ricolme di brutalità e pratiche sadiche. Orrori incapaci di oltrepassare loro stessi nel contenuto, impossibilitati a produrre un senso in grado di trascendere la mera forma. Una scelta stilistica e narrativa che sottolinea la mancanza di senso che la tecnica produce e che il nichilismo descrive. Una scelta che fa del corpo un oggetto fragile e vulnerabile, lontano dall’edonismo che il capitalismo propone e sostiene. Phil Tippett in Mad God dona una spiritualità al capitalismo, assicurandosi di renderla il più oscura possibile. Una dimensione emotiva che rigetta qualsivoglia sovrastruttura per risultare il più immediata e carnale possibile, al limite con la raffigurazione iconografica. Un film prettamente visivo e che fa dello stop-motion un modo per conferire un aspetto materico sia agli orrori illustrati che alla tecnica di cui parla e che indirettamente, almeno sotto certi aspetti, rappresenta nella sua meccanicità. Una comunicazione che si fa ancor più diretta e universale nel suo essere priva di verbosità, di parole in grado di conferire un tempo, un’identità e un luogo al tutto. Quella di Mad God è infatti una dimensione puramente descrittiva in cui il sistema capitalistico, e quello dello stato dell’arte, vengono rappresentate per mezzo di un’esperienza che degenera e si consuma con il passare del tempo. Un’arte volta all’autodistruzione per sorreggere il peso dello spettacolo, per metterlo in scena in modo funzionale ai temi. Un concetto ben rappresentato da una mappa che si sgretola ad ogni passo del protagonista, una mappa che è simbolo di un’opera impossibilitata a sopravvivere al suo essere esperienza.

In Mad God tutto deperisce, tutto si fa racconto di quel processo creativo che ha portato Phil Tippett ha realizzare il suo film. Uno sviluppo creativo durato decenni e che trova espressione in tutti gli aspetti viscerali del racconto. D’altronde quella di Mad God non è altro che una storia che scava nelle profondità di una psiche e di una carne la cui spettacolarità è dettata dal lavoro artigianale e visionario dell’artista. In tutto ciò i corpi diventano l’unico lessico possibile, catalizzatori di significati e sensazioni, quintessenza della materia che muove il film. Il gore incontra così l’animazione, donando a quest’ultima una dimensione narrativa inaspettata. Sangue e carne per i suoi personaggi, una materia da esplorare nelle sue coordinate tematiche e rappresentative. Una nuova frontiera definita da un lavoro sul corpo, in un cinema in cui il corpo, qua inteso come materia tangibile che dà forma ai pupazzo, è l’elemento centrale. Una tridimensionalità mai vista prima, riassunta nella sequenza in cui dei dottori scavano all’interno di un cadavere per estrapolarne il contenuto. Un scena, non troppo dissimile dalle altre, attraverso la quale si manifesta tutta la drammaticità e l’orrore contenuti nel racconto. Mad God è anche, tra le molte cose, un manifesto culturale degli anni ’80 in grado di racchiudere tutto il sentire di quegli anni sotto forma di profezia proveniente dal passato. Un monito chiaro quanto l’idea di artigianalità e di indipendenza creativa che Phil Tippett ha del cinema. Dopotutto Mad God non è che la dimostrazione di quanto gli effetti speciali/artigianali possano costituire da soli la visione di un progetto.

Una vera discesa nell’ade in cui la speranza, per assurdo, risiede in una valigetta ventiquattrore. Un ossimoro che sottolinea quanto la coscienza e la memoria siano dimensioni quasi paradossali in un mondo permeato da meccanismi impossibilitati a configurarsi al di fuori di loro stessi. Un viaggio in una realtà post-apocalittica, fatta cosmi dentro ad altri cosmi, e dissezionata dallo studio anatomico effettuato dal regista per comprendere la natura dei temi affrontati e della sua arte in genere. Non è un caso infatti che nel film siano presenti diverse scene legate alla chirurgia e all’autopsia. Un costante scavare nella carne che, in quanto essenza stessa dell’opera, riflette quanto detto in precedenza. Mad God, per concludere, è una nuova frontiera per lo stop-motion. Una presa di coscienza che parte dall’acquisizione di inediti modi di utilizzare la plasticità e i modelli, nonché dello spettacolo di per sé.
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