In The Substance l’immagine si fa simbolica, retorica nel contenuto, in linea con la più modaiola delle dimensioni pubblicitarie/televisive. Un’opera ludica che pressurizza temi e concetti fino a spogliarli da qualsivoglia stratificazione, riducendoli a meri slogan o siparietti che ne contraddicono ironicamente le ambizioni. Si da così il via ad un’orrore dove gli spazi e i modelli si deformano sotto l’influsso di schermi artificiali e superficiali, divenendo complici degli stessi meccanismi che tentano di contraddire al livello morale. A questo modo i corridoi degli studi televisivi si allungano, si trasformano in lunghe scatole che miniaturizzano i personaggi fino a farli perdere tra colori fluo e poster tutti uguali. La sintesi di un’immagine che primeggia su tutto, di un’immagine che inghiotte ed è ogni cosa. In questi frangenti risulta impossibile non pensare a Shining di Stanley Kubrick e alla sua maniera di ideare un incubo tanto psicologico quanto legato agli ambienti, nel fare di quest’ultimi un’estensione diretta di temi ed emozioni. Il piano materiale, in quanto prolungamento dei dispositivi in uso (cartelloni, schermi e specchi), va così di pari passo con quello ideologico, in un horror in cui le coordinate estetiche risultano tanto stringenti quanto allucinatorie.

Primissimi piani, dettagli, inquadrature grandangolari, Coralie Fargeat amplifica i caratteri alienanti dell’ottica glamour per rendere più morboso l’orrore, sia fisico che sociale, a cui è sottoposto il corpo femminile: quello di Elisabeth Sparkle (Demi Moore/Margaret Qualley). Un orrore che si manifesta come rigetto sistematico, vomito nei confronti dello spettatore che nutre un’industria che rende tutto bidimensionale, plastificandolo anche nel contenuto. Una reazione nei confronti di uno sguardo, in questo caso prevalentemente maschile, che fa dello schermo un’oggetto pornografico in cui la donna, proprio come accadde per Revenge, è chiamata a giocare con quelle coordinate estetiche stringenti ed a tratti inviolabili. Una reiezione nei confronti di una visione che non tenta di scardinare la stessa, ma che, al contrario, punta a lavorarci sopra per farne un atto critico e una presa di coscienza. I primi istanti di The Substance sono sintesi di quanto detto finora: un uovo, presentato come in un compositing pubblicitario/fotografico, si spacca simbolicamente prefigurando gli sviluppi futuri dell’opera, mentre una stella, icona dello starsystem hollywoodiano, si trasforma in uno spazio simbolico che condensa dentro di sé tutta la tragedia delle meteore dello spettacolo.

Come ulteriore esempio vi è anche la sequenza in cui, mentre la protagonista è intenta ad osservare lo spot della sostanza, la videocamera entra lentamente dentro lo schermo in piena soluzione di continuità. Ed è in questo momento che Coralie Fargeat, concludendo la scena con un’interferenza noise anacronistica per l’era digitale, dichiara il suo gioco in atto: le immagini da commercial/videoclip sono progettate per cedere il passo ad un body horror che, nel suo incarnare a pieno lo spirito del genere, si pone come risposta allergica nei confronti del sistema preso in esame. Un assunto che ci porta al punto principale di The Substance: quando Elisabeth Sparkle ottiene un nuovo corpo, o meglio un’altra immagine di sé, non riscatta se stessa e né diventa padrona della propria vita, ma anzi continua a scegliere di essere merce e oggetto. Il punto focale di The Substance infatti sta nel suo voler essere seducente e glamour anche nei momenti più truculenti, nel descrivere un’impossibilità di liberare contenuti ed emozioni ad un’estetica totalizzante. La tragedia quindi non sta tanto nel sistema in sé, che rimane perverso e alienante, ma nella volontà di Elisabeth Sparkle di sottostarvi per raggiungere il successo, nel suo voler essere costantemente guardata in un mondo fatto esclusivamente di occhi, schermi, poster e telecamere.

L’immagine contemporanea, nel suo affascinare corpi e sguardi, diventa così contenitore ultimo, sistema di riferimento per ogni orrore e tragedia. E non è un caso che tutti i flaconi e gli strumenti utili ai transfer siano simili a dei giocattoli e perciò plastificati nella forma, bidimensionali sia nell’orrore che nella scienza. Un presupposto che fa dell’inseguire il proprio sé ideale un atteggiamento diabolico e perverso, riconducibile ad immaginari ascrivibili a film come La Mosca, Re-Animator o Videodrome. Demi Moore, infatti, nel corso del film inizia ad assomigliare sempre più ad una strega o ad una scienziata pazza. Un personaggio, consegnabile ai più classici titoli horror, che occulta il proprio io nei margini più remoti del suo subconscio, ovvero una stanza ricavata dietro la parete di un bagno. È giusto sottolineare, arrivati a questo punto, l’utilizzo che Coralie Fargeat fa dei corpi/cadaveri di Elisabeth Sparkle. Una carne ingombrante, costantemente in scena, tanto protagonista quanto il doppio animato di turno. Una carne che è più concetto e remora morale che materia sulla quale infierire. Una forma di giudizio, a tratti misogina, che si ricollega a quanto detto in precedenza. Quando si parla di The Substance, proprio come successe per Revenge, si parla di mettere in discussione la semantica di una visione mediante le coordinate di un genere. Sottostare al gioco per far del gioco uno strumento di riflessione.

The Substance alla luce di ciò è un’operazione ascrivibile più ai film di genere che a quelli ideologici, soprattutto per il suo modo di rendere centrali le trasformazioni fisiche che l’opera subisce insieme alla sua protagonista. Finestre che diventano delle vetrine surreali, inquadrature sghembe, spazi che si allungano e distorcono, bagni simili a spazi estetici/astratti e riquadri dentro altri riquadri: la visione di Coralie Fargeat è centrale più nel suo essere incubo, o meglio risposta allergica, che in quanto film di sensibilizzazione. Ed è anche per questo che la punizione divina/morale a cui Elisabeth Sparkle va incontro, per quanto dovuta ad una “scelta etica errata”, è comunque riconducibile maggiormente ad un gioco di regole. Un film ancora più totalizzante di Revenge che, per quanto rifletta sullo sguardo maschile, antepone tutto ad un’ossessione per l’immagine più radicale e ampia. The Substance è infatti è la nevrosi definitiva nel contesto art-house, una tragedia “shakespeariana” in cui l’io viene fagocitato dagli schermi che gli sono attorno. Un film febbrile e tragico nei confronti delle estetiche che prende in esame. Un’opera sfacciatamente pop che, nel suo rimasticare vecchi contenuti tra citazioni e rifacimenti, pone in chiaro la dimensione in cui si ambienta. D’altronde il film stesso sembra una televendita rivolta al pubblico in cui LA SOSTANZA viene venduta come una panacea ai problemi irrazionali del contemporaneo. Un rimedio per la forma, ma non per il contenuto che nel frattempo viene sempre meno con il benestare dello spettatore.

Valutazione:

Classificazione: 4 su 5.

Lascia un commento

ALTRI ARTICOLI