Il cinema di Sean Baker ha da sempre attraversato varie sottoculture per appropriarsi di immagini per raccontare un smarrimento esistenziale, dove le emozioni sono progettate come dei rigetti nei confronti del sistema americano. Emozioni forti, spesso incontrollabili, che sfociano in urli o in atti violenti. Una filmografia costellata da personaggi imbellettati, quasi mummificati nel loro status sociale, che vivono in città dominate da marchi e istituzioni. Dalle catene rivenditrici di ciambelle ad altri luoghi simbolo, tutto ciò che ha a che fare con lo stile di vita americano giganteggia su schermo mediante l’uso di totali. Luoghi attorno ai quali si esprime la dimensione socio-economica e drammatica del paese, dal motel di The Florida Project alla sequenza del Donut Time in Tangerine. Una scelta stilistica che firma le varie dimensioni narrative del regista con il sigillo dello zio Sam. Una soluzione per mettere in discussione la maniera con cui l’America si vende a se stessa e al mondo, con cui quantifica il suo benessere.
In tutti i film dell’autore è impossibile non notare una patina pubblicitaria/glam che riveste modelli e luoghi, una patina che sottende l’ironia che muove la politica irriverente di Sean Baker. Uno showreel del decadimento/inesistenza del sogno statunitense dove gli outsider, con il proprio linguaggio e cultura, sopravvivono appropriandosi di spazi vitali. Outsider provenienti dalle più sfortunate astrazioni sociali, i cui corpi appaiono come disarmonici, rotti o messi in vendita; prodotti di un’estetica da commercial antitetico sul life style statunitense. Volti di un’America a cui è negato qualsivoglia riscatto, tanto da non cercarlo nemmeno. Sean Baker in ogni sua operazione costruisce attorno ad una cultura un mondo coerente con le coordinate e logiche che possiede. Realtà da approfondire per evidenziarne lo slang, alias quello in cui i protagonisti credono, e le impossibilità che le condizionano al livello umano.

Anora però, in prospettiva a tutto ciò, risulta apparentemente diverso. In quest’ultimo progetto di Sean Baker, infatti, il sogno americano, per quanto ingannevole, esiste. Un sogno nelle mani del figlio di un oligarca russo, libero di disporre a suo piacimento del corpo di una ragazza americana. Una possibile ed eventuale metafora dell’attuale condizione geopolitica, per quanto secondaria alle consuete meccaniche che il regista mette in gioco. Un’opera che, rispetto alle precedenti, non si assesta su un panorama di precarietà economica o di disagio sociale, ma bensì sul suo opposto. Nella prima parte del film, infatti, assistiamo alla settimana eccentrica e sfarzosa di un gruppo di ragazzi che, consapevoli o meno, si auto illude di un’eternità volta al divertimento. Una vita all’insegna del successo, raccontata mediante un montaggio serrato capace di propinare il tutto a mo’ di spot pubblicitario. Sean Baker imbastisce a questo modo un’illusione che poi lentamente decostruisce, mediante anche un ritmo più disteso, nella seconda parte dell’intreccio.
Lo smarco stilistico tra il primo e il secondo tempo è perciò netto, tanto da essere percepibile sia nella palette cromatica che nelle atmosfere. I toni si fanno così più cupi e freddi, spenti rispetto ai soliti utilizzati dall’autore. I vari luoghi-simbolo del lifestyle americano smettono di giganteggiare, venendo omessi o inquadrati di sbieco, posti al margine dell’immaginario. Anora, nel suo secondo tempo, è probabilmente il lavoro più asciutto e contenuto del regista, il più disilluso nel raccontare le meccaniche e le relazioni che muovono l’America. Anche il corpo di Mikey Madison, inizialmente raccontato con grande enfasi, smette di farsi pornografico. Un corpo che lentamente viene occultato nelle proprie coordinate narrative, a metafora di una storia che smette di farsi erotica nel predisporre sogni e desideri. Insegne e icone diventano così secondarie rispetto ad un road movie che ha come meta l’inverno, la morte di qualsivoglia speranza o sogno. Un’operazione che, se posta in quel filone cinematografico che da sempre ha cercato di tirare le fila delle generazioni americane mediante i loro simboli e marchi, rappresenta la totale dipartita di un sistema e delle sue possibilità. Il film più funerario di Sean Baker.
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