Bertrand Bonello con The Beast suggerisce una riflessione profonda e stratificata sulla natura del cinema contemporaneo, in particolare sull’identità del cinema digitale. L’incipit, ambientato in uno studio di registrazione, dichiara fin da subito il senso di manipolazione a cui la narrazione è soggetta. Una manipolazione le cui coordinate sono dettate da un anti-spazio, un ambiente ricoperto interamente da un green-screen che enuncia la natura meta cinematografica del tutto. Un luogo predisposto a rileggere se stesso, ad essere inquadrato in quanto operazione sul mezzo. Uno spazio vuoto e astratto, predisposto ad accogliere qualsivoglia contenuto o racconto. Un vuoto non solo fisico, ma anche simbolico, un commento sull’assenza di un’autonomia narrativa e visiva da parte delle produzione contemporanee, sempre più intrappolate in un loop di riappropriazione e reinterpretazione del passato. La scelta d’impostare la dimensione del futuro in 4:3 potrebbe essere infatti la descrizione di un medium, così vittima dei processi appena descritti, da risultare contraddittorio nella propria forma, claustrofobico nel non riuscirsi a smarcare dai sentimenti e dai modelli trascorsi. Un’idea che prende ulteriore forma mediante dei glitch visivi che disgregano la visione dal momento in cui questa tenta di uscire fuori dagli schemi prestabiliti. Un limite tanto umano quanto del medium stesso.


Tra jump-cut, rewind e telecamere di sorveglianza emerge tutta la paranoia del regista, e dello spettatore, nei confronti del disumano, nei confronti di un’epoca in cui i media e la società vanno in contro ad una plastificazione sempre più invadente ed evidente. Esemplare è il concetto di bambola in divenire: scorrendo le varie linee temporali di The Beast è infatti possibile riscontrare una sorta di evoluzione di tale rappresentazione, fino a giungere all’androide sintetico come tappa finale di una de-evoluzione formale dal punto di vista etico. Un’idea che trova coerenza con quei mondi-racconti, posticci e beffardi nella propria accezione morale, che da sempre sono al centro della poetica di Bertrand Bonello: dai grandi magazzini di Nocturama, ipocrita promessa di un idillio, alla stanza-anestetico di Coma, spazio progettato per derubricare i conflitti e gli sconvolgimenti emotivi di una diciottenne. The Beast porta così il cinema contemporaneo alla stregua di un sistema tanto ingarbugliato e compromesso da risultare impossibilitato a tirare le fila di una semplice storia d’amore. Un’amore che, ogni volta che viene riscritto, vira verso un impoverimento emotivo, sovrastato da filtri e meccaniche narrative.
E non è un caso, infatti, che la protagonista, qua interpreta da Léa Seydoux, decida di sottoporsi ad un processo di purificazione della propria memoria, per liberarsi (inutilmente) da tutte quelle emotività, appartenenti al suo vissuto, che la rendono disfunzionali agli occhi della sua società. Un personaggio le cui scelte personali e intime riflettono i dilemmi più ampi del mezzo cinematografico. Un personaggio che si preclude all’amore, portando se stessa e la sua realtà alla distruzione. Tra fantasmi, eterni ritorni e mondi destinati a sprofondare e a bruciare, Gabrielle e Louis, due giovani innamorati, sono destinati a rincontrarsi e a morire in ogni linea temporale possibile. Ad attenderli, ad ogni ciclo, un’apocalisse. Un’apocalisse che, proprio come nel libro La bestia nella giungla di Henry James, verte sull’impossibilità di far spazio ad un qualcosa di sincero: un’emozione. Gabrielle, infatti, proprio come John Marcher nel romanzo, è minacciata da un annichilimento spirituale. Bertand Bonello, alla luce di quanto detto, sembra quindi suggerire che i confini tra presente, passato e futuro, così come quelli tra umano e artificiale, siano destinati a dissolversi, lasciandoci sospesi in una realtà instabile e malinconica. L’ambientazione futuristica, che è alla base della narrazione di The Beast, assume qui un significato duplice. Da un lato, il futuro evocato serve come metafora di un mondo alienato, in cui gli spazi spogli e liminali simboleggiano la progressiva disumanizzazione della società. Dall’altro, l’utilizzo della distopia diventa un dispositivo narrativo che consente di evidenziare la condizione dell’umanità in relazione al suo “opposto”: una tecnologia o un ideale che non solo non la rappresenta più, ma la soggioga anche. La scelta di ricondurre ai credits finali mediante un QR code è esemplare di ciò, indice di quanto i dispositivi mobili siano parte del discorso.



E se nel film La bestia nella giungla di Patric Chiha, adattamento dell’omonimo romanzo pubblicato nello stesso anno dell’opera di Bertand Bonello, i protagonisti si trasformano gradualmente in figure evanescenti, quasi vampiriche, osservatori distaccati di un’esistenza che li attraversa tramite immagini, in The Beast invece i personaggi non abbandonano totalmente la propria sfera emotiva. Un amore continuamente ostacolato dal mezzo cinematografico che spezza e altera la linearità della loro storia attraverso un montaggio alternato. A fronte di quanto detto finora, la domanda che il film pone nel suo svolgimento, trova risposta: nell’attuale panorama produttivo individuare una storia semplice, che non venga soffocata dalla complessità visiva o dalla necessità di aderire a schemi già predefiniti, risulta sempre più difficile.
E se emozioni come l’amore, la sofferenza e l’orrore non trovano più spazio nel sentire contemporaneo, allora anche la politica e la coscienza finiscono per subirne lo stesso trattamento. Del resto, i sentimenti sono da sempre cifre con cui l’uomo codifica se stesso e la propria contemporaneità, tracciando confini utili a delineare l’identità e la morale di ogni cosa. Ed è in questo contesto, a fronte di un cinema sempre più plastificato, anche a causa di alcune produzioni art-house, che The Beast di Bertrand Bonello risuona come un monito. Una sinistra profezia per un’epoca che si è smarrita tra mille schermi, riflessi, meme e immagini instagrammabili. Non è un caso, infatti, che la timeline del presente sia contraddistinta da svariate desktop-view, ricolme di immagini e modelli ossidati nella propria contraffazione, pubblicità di un mondo al limite dell’irreale. Esemplare è anche la scelta di mettere, nei primi minuti di questo segmento narrativo, una carrellata su delle vetrine a cui i margini giacciono dei senzatetto.



Alla luce di quanto detto, l’epilogo del film diventa meno ambiguo: quel ti amo gridato, probabilmente detto troppo tardi, diventa l’urlo disperato di una società che per troppo tempo ha rinnegato se stessa. E se la prima parte dell’opera, ambientata prevalentemente durante la Belle Époque, in cui ogni emozione ha il suo spazio e il suo momento per sedimentarsi, risulta noiosa agli occhi dello spettatore contemporaneo, allora il discorso fatto in The Beast può definirsi compiuto e concluso.
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