Rimodellare le coordinate di una storia per rispondere a esigenze etiche e politiche contemporanee, far collassare immagini e mitologia per far spazio ad un racconto in cui le emozioni sono importanti questioni morali, influenze sul mondo. Questo è Arcane, questi sono gli sviluppi e i temi che spezzano la linearità della seconda stagione. Elementi che, per quanto dettati da salti logici e temporali dovuti ad eventuali rimaneggiamenti produttivi interni o dettati da terzi (Netflix), sono ugualmente coerenti con la direzione artistica e contenutistica dello show. D’altronde il terrore/fascino per l’atomico, la figura di Viktor alla Dottor. Manhattan / Elon Musk maniera e lo scenario, in quanto meccanismo divino che muove le fila dell’intreccio, sono fattori che trovano fondamenta fin dai primi episodi. Fattori che riflettono sull’importanza di posizionare il medium all’interno del proprio tempo, facendo del sentire contemporaneo un’epopea. Un pantheon emotivo in cui in ogni personaggio, araldo di una visione del mondo, si muove all’interno di uno schema. Uno schema che nella seconda stagione di Arcane diventa cosmico, totalizzante ed urgente nelle sue implicazioni, esasperando quella verticalità che da sempre ha veicolato le questioni morali ed etiche della serie. Se nella prima stagione le immagini venivano scarabocchiate, riscritte sul piano dei sentimenti, in questa invece deflagrano, si astraggono sotto il peso dei dilemmi politici che i protagonisti sono chiamati a fronteggiare.


Emblematica è la sequenza in cui Ekko, Jayce e Heimerdinger entrano in contatto con il cuore dell’Hextech, riconducibile al livello simbolico ad un reattore nucleare, venendo disgregati da dei glitch. L’incarnazione di un’instabilità dovuta ad una tecnologia che non è mai neutrale, mai apartitica. Segno di quanto il corpo della narrazione sia plastico, soggetto agli stati dell’animo di cui i momenti “amv” della serie sono portavoce. D’altronde Arcane è un prodotto che, per quanto si ponga all’interno di un mondo steampunk e transumanista, è classificabile in senso opposto. La volontà di far spazio ad ogni identità e di individuare una politica che possa mediare pacificamente le divergenze fra le varie classi sociali è rappresentativa di un’opera progettata per tirare le fila di un mondo che, per quanto fuso con i suoi dispositivi e le più disparate sottoculture, combatte per i più classici valori umani. In ciò Arcane è punk: si posiziona all’interno di un sistema e ne mette in discussione l’ontologia. Una filosofia che trova nell’anti-linearità della seconda stagione, per quanto frutto di un evidente cambio di direzione (imposto o meno), una coerenza nello sfidare le più salde convenzioni.
Detto ciò non può essere trascurata o perdonata la gestione frettolosa di alcuni eventi e l’evoluzione emotiva di certi personaggi. Ad esempio, Jinx, che da un piano astratto, simbolo di un’ipotetica rivolta, viene ricondotta a un piano più umano, o i conflitti tra Piltover e Zaun, centrali nella prima stagione, qui risolti in poche rapide sequenze. L’impressione è infatti che manchi una stagione tra il primo ed ultimo atto. Una mancanza che rende alcuni eventi, anche salienti, confusi o a stento abbozzanti. Dalle vicende tra Rosa Nera e Ambessa alla guerra tra Piltover e gli androidi di Viktor, tutto è ridotto all’osso, spogliato di qualsivoglia sostanza per giungere alla conclusione etica e politica dell’intreccio. E per quanto alcune scelte si possano giustificare con “una visione instabile e al limite del collasso quanto l’Hexcore”, il tutto risulta compromesso. Nonostante ciò la seconda stagione di Arcane riesce ad essere un lavoro interessante, soprattutto per un comparto tecnico ancora più totalizzante nel captare le emozioni dei personaggi. Ed è proprio l’aver sacrificato tutto, tranne il sentire che guida le scelte dei protagonisti, a rendere quest’opera unica, distinguendola da quei lavori in cui immagine e il mito rappresentano tutto.
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