L’atto processuale di Giurato n°2 si costruisce non solo sulle criticità e le contraddizioni della contemporaneità, ma anche sul tentativo di fornire una visione che, conscia della storia e delle meccaniche del cinema, è in grado di fornire un’ottica differente allo spettatore. Un’ottica più consapevole e perciò meno disillusa. Il film di Clint Eastwood, riprendendo l’impianto narrativo di un’opera cardine come La Parola ai Giurati – saldo nella storia per aver fornito un modo nuovo e poi sistematico di trattare il concetto di giustizia – ne ribalta la prospettiva, indagando sulle possibilità che la verità ha di manifestarsi attraverso le azioni del protagonista. A questo modo il pubblico non è più messo alla stregua di un giurato, ma come spettatore di un’insieme di fragilità individuali che mettono in discussione la democrazia stessa. Lo spettatore non è chiamato quindi a disquisire, almeno apparentemente, sul dubbio, ma bensì sulla possibile etica che manovra il comune cittadino. Un cittadino che contamina, volontariamente ed involontariamente, il processo a cui partecipa, sollevando dei quesiti sulla funzionalità del sistema giuridico. Può esistere una giustizia davvero imparziale? E, ancora più radicalmente, possono i pilastri più alti della cultura americana — famiglia, Dio e patria — rimanere integri se la giustizia viene meno?

Giurato n°2, nel suo decentrarsi dai ragionamento di colpevolezza/innocenza, destruttura il film processuale per antonomasia, per far spazio ad un’opera che, nel suo alternarsi tra memorie individuali e aule di tribunale crea un’impossibilità di separare il giudizio razionale dalle influenze esterne. Emblematica è la sequenza in cui i giurati, per risolvere la situazione di stallo in cui si ritrovano, sono chiamati ad ispezionare il luogo dell’incidente. Come è esemplare che i ricordi del protagonista interrompano la linearità delle sequenze ambientate nel palazzo di giustizia, suggerendo come il sistema sia vittima di pressioni tanto collettive quanto personali. Flashback che creano furbescamente un capo d’accusa nella mente dello spettatore attraverso assonanze e accostamenti, senza mai mostrare in maniera inconfutabile la colpevolezza di Justin. Tant’è vero che il regista utilizza la pioggia sia per creare un nesso causale/temporale tra il momento dell’incidente ed il litigio della coppia che per omettere il corpo del reato. Un modo per sottolineare quanto le immagini possono facilmente dirottare la percezione di chi le osserva e di quanto il senso del vero sia sempre più rarefatto nell’epoca del post-verità.
Il concetto di giustizia diventa così una questione di manomissioni, di compromessi, di menzogne, disegnando quindi una nazione ambigua anche sui valori annessi. Dal concetto di famiglia, qua come istituzione dalla natura corrosiva e ricattatoria, alla figura simbolica di Dio, scusante ideologica per far passare inosservate le decisioni più immorali. Il film crea così un ritratto cupo e pessimista degli Stati Uniti contemporanei, un paese dove la giustizia non è più il luogo di riscatto ma il teatro di una decadenza irreversibile. Una crisi umana ed etica che, per quanto da sempre centrale nel cinema del regista, giunge ad un livello sistematico e di percezione delle istituzioni/valori inedito, totalmente radicale. E se un normale cittadino, di insospettabile crudeltà, poiché ritratto dell’americano medio, tradisce il sistema giudiziario per puro egoismo, allora la crisi può definirsi assoluta. L’approccio di Clint Eastwood in tutto ciò è chirurgico, estremamente quadrato, scevro da qualsivoglia entusiasmi. Un’opera che, con delle impostazioni al limite del scolastico, enuncia quanto invisibile e sottile possa essere, in campo mediatico e sociale, l’estradizione della verità.
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