La stanza accanto di Pedro Almodóvar nasce e si sviluppa attraverso pretesti così forzati e grossolani da rendere il suo melodramma un’oggetto palese nella sua macchinazione, quintessenza di una finzione programmata per far discutere i suoi personaggi di questioni morali urgenti. Gli innumerevoli e surreali skyline/paesaggi che irrompono nell’intimità delle stanze e dei dialoghi non servono solo a sottolineare la natura esistenzialista e politica dell’intreccio, ma anche a delineare una dimensione narrativa in bilico tra la messinscena e quella verità che si muove tra le parole e gli sguardi delle due protagoniste. Una verità che parla di morte, della possibilità di sceglierla quando la vita non è più tale. Una questione etica che Pedro Almodóvar solleva senza dubbio alcuno, consegnando al proprio personaggio la legittimità delle proprie scelte. Un personaggio, quello di Martha (Tilda Swinton) simile ad uno spettro in mezzo a vivi. Morta, ancor prima di esserlo. Un concetto che l’autore delinea attraverso un gioco di riflessi che astraggono la figura della donna, donandole un aspetto etereo, in linea con la dimensione fantastica che muove lo sfondo del racconto.
Emblematica di ciò è la sequenza della neve rosa in ospedale, scena simbolo di un mondo prossimo al collasso per i vari cambiamenti climatici. Un atto fantastico che è menzogna, espressione di un cinema che depone il realismo a fronte di scenari emotivi in grado di accogliere le suggestioni dell’intreccio. In ciò i richiami alla poetica di Ingmar Bergman, e in particolare a Persona, aiutano a rendere le questioni politiche ancora più personali, intime, esclusive dell’individuo che le affronta. L’approccio è di per sé impressionista. Vita e morte diventano così questioni legate alle relazioni, alle parole e al passato, estranee a quel mondo esterno che fa capolino dalle varie vetrate. L’eutanasia, infatti, si configura come un quesito confinato entro le dinamiche politiche di un insieme di stanze. Un quesito a cui i vari skyline sono chiamati ad assistere quasi come se fossero degli spettatori, sfondi sui quali le protagoniste giganteggiano per importanza morale.

Una distanza voluta con il mondo esterno, pensata anche per guardare con lucidità alle scelte e alle parole di Ingrid (Julianne Moore) e Martha, ma che si schianta contro un intreccio dalle risposte e conclusioni semplici. La complessità umana a questo modo diventa uno scarto accettabile, secondaria a quella volontà di collocare ogni cosa sotto la prospettiva morale giusta. La necessità, o probabilmente l’urgenza, di mandare il messaggio, soffoca così l’esplorazione dello stesso, facendo risultare l’opera come un’impeccabile siparietto dalle buone intenzioni. La stanza accanto, alla luce di quanto detto, risulta un film imbalsamato, rigido nelle sue impostazioni, volutamente poco partecipato, come se autore e spettatore si trovassero nella medesima posizione morale. La scelta di evocare la dimensione pittorica di Edward Hopper, infatti, serve a rendere lo sguardo di Pedro Almodóvar simile a quello di un’osservatore che fotografa le proprie emozioni, ma senza coinvolgimento alcuno. Le atmosfere, infatti, risultano fredde e spesso inaccessibili, più simili a dei quadri statici che ad ambienti vissuti. E per quanto questa scelta sia coerente con quanto detto finora, è la scarsità del contenuto che pone in evidenza, senza contaminazioni o intrusioni alcune, il problema.
Tutto questo insieme di scelte però rende l’opera così calcolata ed intenta a mandare il messaggio giusto da perdere il focus sulla situazione. Ed è a questo modo che i commenti sonori diventano più importanti dei silenzi, proprio come la ricostruzione cromatica dei quadri di Edward Hopper, per quanto funzionale ai contenuti del film, diventa primaria rispetto alle fragilità umane delle due protagoniste. Guardando La stanza accanto si ha come l’impressione di assistere ad un melodramma così ben confezionato da sembrare più un’esercizio stilistico che una riflessione emotiva/politica. Un esercizio di stile che, nel suo continuo oscillare tra opposti — passato e presente, finzione e verità, rosso e verde — rende il tema dell’eutanasia una questione più cinematografica che umana/politica, generando un cortocircuito nell’intero progetto.




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