Il cinema di James Cameron ha sempre fatto della tecnologia e della tecnica un modo per rimasterizzare e scrivere storie, elementi strutturali di una poetica e di un linguaggio che mirano a porre lo spettatore di fronte a esperienze totalizzanti, capaci di ridefinire il rapporto con il visivo, i dispositivi e la sala cinematografica. Un autore che, da ‘Piranha II: The Spawning‘ fino ad ‘Avatar: Fire and Ash‘, si è mosso costantemente sul terreno del mito, riscrivendo ed estendendo narrazioni, classiche o meno, attraverso un processo di ricerca quasi scientifico sulla rappresentazione. Un modus operandi che, al di là del mero aggiornamento visivo, tenta di interrogare e rappresentare l’uomo contemporaneo non solo in quanto fruitore di narrazioni e dispositivi, ma anche nel suo rapporto più intimo con le immagini e nel modo in cui queste, nella loro dimensione più totalizzante, possono sintetizzarlo attraverso racconti epici e universali. Si può dire quindi che il cinema di James Cameron tenti ogni volta di ergersi a manifesto del proprio tempo, dei modi che quest’ultimo ha di consumare e intendere l’audiovisivo.
Tutte queste tensioni però, all’interno della trilogia di Avatar, sembrano progressivamente perdere la propria funzione narrativa-teorica, riducendosi ad un pigro esercizio di ridefinizione cosmetica che lascia emergere un unico messaggio di fondo: lo spettatore non è più chiamato a interpretare, ma a immergersi. Non a pensare, ma a permanere nel mondo digitale dei Na’vi. Un contesto in cui il ruolo dello spettatore cambia radicalmente. Non viene più stimolata un’interpretazione o una presa di posizione critica, ma un’esperienza di immersione prolungata. In sostanza: l’immagine non chiede di essere pensata, ma abitata. Se il primo Avatar infatti, letto in chiave metatestuale, raccontava in maniera catartica di una digitalizzazione invadente, in cui l’umanità era rappresentabile più attraverso l’inumano che attraverso l’umano stesso (già avvertibile in Terminator), i capitoli successivi invece, mediante un processo di ridefinizione delle immagini simile a un continuo reboot/remastered, portano avanti un concetto di meta-mondo, in cui il fine ultimo è riperformare l’esperienza. Un mondo che non serve tanto a raccontare qualcosa di complesso o articolato, ma un mondo che funziona per il solo fatto di esistere in quanto macchina espressiva-immersiva.
Tutto ciò rende maggiormente chiaro il motivo per cui la saga di James Cameron, a differenza di altre a stampo fantastico, non abbia mai generato un reale accolito/fandom nel corso degli anni: Avatar non è una storia, ma un mondo-esperienza. Un mondo-esperienza che trova il suo senso e il suo compimento all’interno della sala o del dispositivo preposto per la visione, ma che al di fuori difficilmente fornisce scopo o significato.

Capitolo dopo capitolo, la saga appare infatti sempre meno interessata a sviluppare nuove forme o contenuti e sempre più concentrata sulla reiterazione di un immaginario. L’evoluzione tecnologica in ‘Avatar; Fire and Ash’, così come già accadeva per il capitolo precedente, infatti non si traduce in un’evoluzione reale del racconto e delle sue tematica, ma in una sua levigatura continua. Un cinema che si auto-contempla e che lavora sulla superficie dell’immagine come valore in sé. Il rischio? un’arte che smette di essere terreno di conflitto di idee e tensioni e sempre più terreno anestetizzante, accomandante fuga dalla realtà. In merito a ciò Avatar, qui intesa come saga, crea un cortocircuito poiché, pur essendo attraversata da temi esplicitamente politici come il colonialismo e la distruzione ambientale, finisce con il risultare apolitica.
Non perché siano assenti dei riferimenti, ma perché questi vengono depotenziati all’interno di un impianto narrativo e visivo che non li problematizza davvero. Il conflitto, qui inteso in quanto dilemma etico ed umano, non è mai aperto e contraddittorio; è ridotto a una dinamica elementare, in cui il male è chiaramente identificabile e il bene rassicurante. La politica diventa così un mero appannaggio che non mette mai realmente in crisi l’esperienza. Nella saga di James Cameron infatti lo spettatore non è tanto chiamato a interrogarsi sul proprio ruolo all’interno dei sistemi di potere, piuttosto ad identificarsi con una fuga totale: abbandonare il mondo umano, tecnologico e storico per immergersi in un altrove armonico, seducente, chiuso su sé stesso. È qui che il film si rivela apolitico nel senso più profondo del termine: non perché rifiuti la politica, ma perché la dissolve in un’esperienza sensoriale totalizzante e accomodante che sostituisce il pensiero con l’immersione.

E alla luce di quanto dino ad ora, nonché al minimo scarto tecnico-visivo che intercorre tra il secondo e il terzo capitolo, si può affermare che l’innovazione in ‘Avatar: Fire and Ash’ sia difficile da rintracciare, tanto sul piano espressivo quanto su quello contenutistico e teorico. La spettacolarità dell’ultimo lavoro del regista si riduce così in ad un’immagine bidimensionale iper-elaborata digitalmente, ma priva di una reale tensione formale. In questo senso, ‘Avatar: Fire and Ash’ sembra segnare il punto in cui il cinema di James Cameron smette di essere un’insieme di scelte stilistiche e inizia con il diventare il prodotto di una macchina del guadagno che renderizza immagini fac-simile sempre meno autonome e rischiose.
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