Bones and All di Luca Guadagnino raccoglie e rielabora l’eredità culturale di film come ‘Badlands‘ di Terrence Malick, inscrivendosi nella tradizione del road movie statunitense, per poi contaminarla con le sensibilità, le pulsioni e le fragilità del teen movie contemporaneo. Ne emerge così un viaggio ultimo verso l’orizzonte di quel sentire, un viaggio attraverso un’America capace di richiamare la dimensione emotiva e narrativa dei quadri di Edward Hopper, soprattutto per l’utilizzo dello spazio come forma d’isolamento e come strumento di messa in discussione di un sistema, sia per quanto riguarda i suoi valori che i suoi simboli. Le case, le strade, i diner, le stazioni di servizio non servono infatti a descrivere una comunità nei suoi usi e costumi, ma a sottolineare l’assenza di essa. Un’assenza tanto politica quanto sociale ed umana. Proprio come Edward Hopper dipingeva interni ed esterni in cui le persone erano fisicamente presenti ma simbolicamente già altrove, così Luca Guadagnino dirige un film pieno di “fantasmi“, di creature fameliche che non abitano realmente i luoghi, ma che li consumano o attraversano solamente. Quello di Bones and All è infatti uno spazio emotivo di frontiera, uno spazio da film western, in cui il tracollo del mito americano diventa la descrizione, quasi apocalittica, della condizione esistenziale che i giovani d’oggi si ritrovano ad affrontare, anche e soprattutto attraverso i loro corpi e la loro sessualità.

I protagonisti non sono ribelli per scelta, come i Kit e Holly di Badlands o i Bonnie e Clyde di Arthur Penn, ma lo sono per condizione ontologica. I Maren e Lee di Luca Guadagnino infatti non combattono contro un ordine sociale, bensì contro un’appartenenza biologica e simbolica che li precede. Sono emarginati per specie, o meglio per categoria sociale, e il loro essere di reietti è inscritto nel corpo. Un corpo che, come spesso accade nel cinema dell’autore, è motore narrativo, strumento di riflessione e principio di una ricerca identitaria e spaziale. Uno spazio che, come già detto in precedenza, rifiuta entrambi o che si annulla in quanto habitat di riferimento. Il mondo di Bones and All è infatti di per sé crepuscolare e il tempo in esso scorre lento quanto una condanna a morte. E per quanto l’approccio esistenzialista del regista finisca con lo stemperare l’orrore in esso, riconducendolo ad una forma di smarrimento adolescenziale e sentimentale, l’opera comunque non perde di ferocia, soprattutto nella sua lettura critica della società.
In Bones and All il corpo si allontana dalla patina pop di We Are Who We Are per scivolare in una dimensione più oscura, primordiale e rurale. È un corpo che sanguina, che si perde, che entra in affanno, che si sporca. Un corpo che si sottrae a ogni tentativo di piena razionalizzazione e che trova nel proprio turbamento la sua funzione principale: porsi in maniera instabile nei confronti della società che lo ingloba. La ferocia sta proprio in questo, nel disporre delle condizioni ontologiche che prevaricano qualsiasi possibile lieto fine. È l’essere nati il problema più grande, soprattutto in una realtà in cui l’orizzonte non è in grado di disporsi in quanto promessa. L’immaginario quindi, come detto in precedenza, è quello della controcultura degli anni Settanta, ma il sentire è radicalmente contemporaneo. Un’appropriazione culturale che mette in luce due evidenze: da un lato, la mancanza di uno spazio mitologico e ideologico autonomo dove le nuove generazioni possono esercitare un gesto di rottura e di critica nei confronti del proprio tempo; dall’altro, una nostalgia sempre più patologica e normalizzata insita nel cinema contemporaneo, che pare sempre più condannato a lavorare in rielaborazione che sulla creazione di orizzonti / mondi inediti.

Ed è proprio in questi spazi carichi di fascino e di nostalgia che l’orrore e l’incanto finiscono per mescolarsi. Romanticismo e tragicità convivono così in un’esistenza concepita ad episodi, per momenti isolati, poiché incapace di offrire soluzioni o continuità. Il film si chiude infatti su un momento sospeso, fuori dal tempo e dallo spazio, preservando intatto quell’amore per il bello e per il sentimento che costituisce il nucleo più autentico del cinema di Luca Guadagnino. Un cinema capace di attraversare ed elaborare vari generi e immaginari per discutere i propri temi, ma senza cedere mai il passo ad ammiccamenti gratuiti.
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