I media mistificano la realtà quanto le più fanatiche e bigotte convinzioni: questo sembra essere lo sviluppo di X: A Sexy Horror Story. La prima inquadratura ci riporta infatti alle medesime coordinate iniziali del film precedente, ma con la sola differenza che questa volta la fattoria di Pearl appare immacolata, degna del più sfavillante film in Technicolor degli anni 30’s/40’s. L’idea è semplice: raccontare di un idillio di pura contraffazione, prodotto di un perbenismo di facciata che maschera le più profonde contraddizioni spirituali e politiche di un’America feroce e virulenta. Un tentativo a tratti surreale, qua sottolineato da una gamma cromatica in grado di rifarsi ai mélo di Douglas Sirk o a prodotti più blasonati e fantasiosi come Il mago di Oz di Victor Fleming. A questo modo le immagini tornano ad avere, anche in questo secondo capitolo, un ruolo quasi mitologico, totalizzante per la vita della giovane Pearl. Dagli inserti cinematografici/onirici che incoronano la protagonista a diva dello spettacolo ancor prima del tempo alle pellicole spiate al cinematografo, tutto ciò che a che fare con il concetto di medium risulta fuorviante, a tratti meschino quanto il peggiore dei credi religiosi. Il sogno hollywoodiano viene così descritto, forse in modo ancora più plateale ed esplicito di X: A Sexy Horror Story, come una trappola mortale: lo specchio di Narciso. Un’immagine nella quale riflettersi, ma senza mai ritrovarsi.

La dimensione metacinematografica in questo secondo film, rispetto al primo capitolo della trilogia, si fa meno macchinosa e complessa, semplificandosi a mero spettacolo teatrale in cui Pearl / Mia Goth ottiene uno “show” tutto suo. Il monologo finale di quasi 8 minuti è forse la sequenza più esemplificativa di quanto detto, indice di una telecamera a cui non interessa altro che carpire il talento recitativo di chi inquadra. Un modus operandi che però rende l’operazione più spoglia di contenuti rispetto alla precedente, limitata anche dalla volontà di infiocchettare le cose a dovere, piuttosto che di esplorarle nella loro natura fenomenologica. Se l’idea di fare di Pearl una sorta di brochure in cui ogni elemento risulta estremamente calcolato ed imbellettato risulta vincente e funzionale per il discorso tematico del film, quello che invece appare come fallimentare è proprio il mancato sviluppo di questo concetto. Niente viene sviluppato, portando così l’operazione a collassare su se stessa e sull’idea di “tutto forma e niente sostanza“. L’unico vero e grande difetto di Pearl è perciò l’essere bluff di se stesso, mancando anche di arguzia per esplorare questo suo aspetto.
Quello che invece rende l’operazione ugualmente appetibile è il cambio di direzione tra X: A Sexy Horror Story e il suo prequel. Se nel primo film della trilogia i personaggi appaiono più “prigionieri “di uno spazio scenico che di uno sguardo, qui è l’esatto opposto. Se il palcoscenico di X: A Sexy Horror Story è un ambiente cult, espressione di un fenomeno culturale in cui reboot, requel e remake si susseguono, e il cui fascino per la riproposizione passa per i modelli e i set, per Pearl invece è il modo di inquadrare e di “colorare” un’immagine. Ecco che l’ossessione di immortalare attraverso lo sguardo, già presente nell’opera precedente, diventa uno spettacolo ancora più perverso. Uno spettacolo in cui il sangue e il grottesco diventano solo un surplus contenutistico per macchiare e smaschera l’ipocrisia della messa in scena. Attenzione però a incasellare il film di Ti West come operazione fine a se stessa, o come mera appendice produttiva, poiché Pearl, proprio come X: A Sexy Horror Story, sono lavori che riflettono sulle politiche del presente. L’uso delle mascherine infatti non è un caso, punta a collocare il progetto all’interno di una contemporaneità per evidenziare alcune dinamiche mediali/produttive e sociali. Dalla capacità dei media di manipolare il reale o la percezione di sé alla ricerca del successo senza talento alcuno in ambito social. Alcuni di questi temi hanno una loro risonanza in questo secondo capitolo, così come lo avevano nel primo, per quanto sempre secondari allo spettacolo di genere.
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